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Nelle meraviglie di Alice (alcune tra le molte possibili)

di Paolo Patrizi
  Foto di scena Wilfried Hoesl
Data di pubblicazione su web 17/07/2007  

L’assolo arpeggiato del clarinetto basso crea un’atmosfera di angoscia sorda e immedicata – uno dei momenti più alti di drammaturgia musicale nell’intero corpus verdiano – quando Amneris si rivolge a Radames cantando Già i sacerdoti adunansi. Si tratti o meno di un indiretto omaggio all’Aida, Unsuk Chin, nell’utilizzare l’insolito strumento, lo piega però a tutt’altri fini espressivi: sta ad esso, in questa nuova versione operistica di Alice nel paese delle meraviglie, dar voce al personaggio del Bruco (“languido e assonnato”, nel testo di Lewis Carroll), secondo un procedimento – far parlare i personaggi senza parole, ma ricorrendo alla mera eloquenza d’un timbro strumentale – già sperimentato da Bruno Maderna in Don Perlimplin (1962).

La Chin, coreana di formazione europea, è nata appena un anno prima dell’opera di Maderna e il suo linguaggio musicale non è certo quello dei figli di Darmstadt: lontana dagli ultimi scampoli delle avanguardie come dai neominimalisti, è piuttosto una compositrice ben inserita nel solco della tradizione, fedele a un’idea di teatro d’opera concepito ancora come tale (e non come generico “teatro musicale”), con il viatico – ha studiato con Ligeti – d’un mestiere ferratissimo. La Bayerische Staatsoper, nell’ambito di una politica volta a commissionare molte “prime” assolute, ha fatto della sua Alice in Wonderland il fiore all’occhiello dell’Opern Festpiele 2007, anche grazie all’entusiasmo e – si direbbe – all’assoluta adesione estetica con cui Kent Nagano, direttore musicale a Monaco e concertatore della serata, ha affrontato la partitura, estraendone tutti i succhi possibili.


                            Foto: Wilfried Hoesl

Nonostante Alice in Wonderland sia il primo lavoro teatrale della Chin (già ampio, invece, il catalogo cameristico e sinfonico-vocale), ciò che più colpisce è l’astuzia con cui ogni ingrediente viene bilanciato, l’estrema sapienza della fattura indipendentemente dal valore, variabile, dell’ispirazione. Sfruttando un organico assai composito (troviamo anche fisarmonica, armonica a bocca, mandolino, campanacci, fischietti, bicchieri di cristallo, arnesi da cucina e una sveglia) la compositrice crea aggregati di notevole densità sonora, pronti però ad assottigliarsi fino alle più tenui sfumature. A colpire è la ricchezza degli impasti – prima ancora che dei colori – e, soprattutto, un’abbacinante luminosità timbrica: in questo la lezione di Ligeti è ben presente, ripensata in chiave di musical colto, con tanto di citazioni ironiche (il folle tea party del Cappellaio Matto viene contrappuntato da echi della musica barocca inglese).

Il libretto, scritto dalla compositrice con David Henry Hwang, cita alla lettera molti dialoghi del romanzo, senza però rendere giustizia a Carroll: talvolta semplificandolo, talaltra arzigogolandolo con un simbolismo estraneo alla logica, al contempo ferrea e stralunata, del libro. Sotto il profilo teatrale però funziona, anche perché i personaggi sono ben caratterizzati nelle fisionomie vocali. Al di là del Bruco-clarinetto, l’uso d’un controtenore per il Coniglio Bianco e la Lepre Marzolina (Andrew Watts, virtuoso senza affettazioni), d’uno stratosferico soprano di coloratura per il Gatto dello Cheshire (Julia Rampe, formidabile belcantista del miagolio) e d’un autentico baritono operistico per il Cappellaio Matto (Dietrich Henschel, bravissimo come sempre) contribuiscono a rendere ancor più accattivante la partitura. Il vero tour de force spetta ovviamente al soprano lirico chiamata a incarnare Alice, in scena dall’inizio alla fine (una Sally Matthews insieme corretta ed espressiva), ma il colpo da maestro è stato accaparrarsi la veterana Gwyneth Jones, classe 1936, per la parte della Regina di Cuori. La Brunilde di Boulez e Chérau oggi sfoggia una voce che è ancora una lama per forza di penetrazione, ma anche, inevitabilmente, un terremoto di suoni oscillantissimi in zona acuta. Riascoltarla nei suoi vecchi cavalli di battaglia sarebbe triste; gustarla in una parte come questa, dove i suoi mezzi attuali vengono utilizzati in senso grottesco ed espressionista, è un autentico divertimento.


                                 Foto: Wilfried Hoesl

Achim Freyer – l’ultimo allievo di Brecht rimasto su piazza – realizza uno spettacolo di suggestiva macchinosità: eccetto Alice e la Regina, i personaggi vengono duplicati da giganteschi pupazzi; gli interpreti, invece, si collocano al proscenio, vestiti tutti in modo identico, con la parrucca e la divisa oxoniana con cui il reverendo Charles Lutwidge Dodgson, per i posteri Lewis Carroll, fu immortalato in una celebre foto. Talvolta affiora un senso del macabro che, pur presente nel libro, appare troppo insistito: va bene rappresentare con un teschio la metamorfosi del Bruco in farfalla, ma perché far poi incombere il suddetto teschio sino alla fine dell’opera, quando ne sigla solo un episodio? L’impressione è che Freyer, calcando il pedale sul versante “nero”, si preoccupi soprattutto di prendere le distanze dal solare modello disneyano, con cui qualunque rilettura di Alice deve fare i conti: ma quando si lascia andare alla pura libertà fantastica, come nel quadro della Regina, l’unghiata del vero uomo di teatro lascia ancora il segno.




Alice in Wonderland



cast cast & credits



Foto: Wilfried Hoesl


 



 



 


 



 
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