«Certo questo […] Sogno considerato quale è, risulta troppo oscuro, indeterminato, incompleto. Esso non potrà mai avere sulla scena che un successo letterario e questo non gli mancherà mai […]». Così scriveva da Parigi, il 17 giugno 1897, Giovanni Pozza, critico del «Corriere della sera», dopo aver assistito alla prima assoluta del Sogno di un mattino di primavera, il poema drammatico che siglò lesordio della collaborazione artistica tra Gabriele DAnnunzio e Eleonora Duse. Il testo era appena uscito dalla penna del divino poeta, frutto di una stesura durata solo dieci giorni. Una scrittura doccasione, sollecitata dalla Duse che voleva arricchire il repertorio della sua tournée francese con una novità italiana. In quelloccasione però del testo non si parlò – o si parlò poco e non favorevolmente – poiché linterpretazione dellattrice ne sopravanzò di gran lunga il valore. La Duse – testimonia ancora il nostro critico - «fu meravigliosa e il successo le si deve tutto attribuire».
Sono passati ormai 110 anni da quellevento ed è ancora una circostanza occasionale – la mostra di Desiderio da Settignano allestita al Museo del Bargello di Firenze – a portare il Sogno dannunziano sulle scene. Un flebile filo lega infatti il testo allo scultore. Una statua, da lui scolpita, è particolarmente cara a Isabella, la protagonista del dramma, divenuta “Demente” per aver giaciuto unintera notte accanto allamante ucciso e averne assorbito, quasi per osmosi, il sangue. Tale filo è però sufficiente a far scattare una scintilla creativa e a portare la Compagnia Lombardi-Tiezzi a misurarsi con un copione che anche oggi, come allora, ci appare «oscuro, indeterminato, incompleto», certamente più letterario che teatrale, ma che, anche oggi, come allora, diviene accettabile e accessibile per virtù dellinterpretazione. Lattore, una volta ancora, salva e sopravanza lautore. Aiutata da un bellallestimento che vede il cortile del Bargello trasformato per loccasione in hortus conclusus – motivo caro a DAnnunzio – è infatti la presenza, quasi carismatica, di Sandro Lombardi a primeggiare su tutto e a catturare locchio e la mente dello spettatore. Spariscono così le zavorre. Quelle letterarie, copiosamente diffuse dal poeta allinterno del testo, e quelle ideologiche profuse a piene mani dai due adattatori, Lombardi e Tiezzi, che nellopuscolo destinato a spiegare la genesi dello spettacolo - chissà perché - ritengono di dover scomodare, tra gli altri, anche Freud e Hitchcock. Ma, fortunatamente, a scanso di tanti sabotaggi, sulla scena rimangono soltanto lattore e il suo personaggio che si muovono, insieme e fatalmente congiunti, nello spazio di uno scenario suggestivo, noncuranti della presenza strumentale delle altre figure del dramma. Lombardi non affida laccento delle sue parole alla proverbiale musicalità della scrittura dannunziana ché, anzi, la gamma della sua tonalità non lascia spazio a virtuosistiche modulazioni – sulle quali deve aver invece mirabilmente puntato Eleonora Duse – ma alterna alla cadenza straniante di un moderato falsetto la voce cavernosa e ultraterrena di un coinvolgente monologo finale, quando non è più né donna né uomo (e non solo per luso della maschera e per il ruolo recitato en travesti) ma, come nel teatro delle origini, un attore-sciamano che compie il miracolo della trance e riesce a trascinarci verso un “oltre” dai confini non definiti ma, a tratti, raggiungibili. Luscita di scena che porta attore e personaggio al di là del cancello, verso una fusione panica con la natura, appare pertanto necessaria e conseguente, il compimento di una metamorfosi, annunciata dai verdi disegni della lunga palandrana di velluto fin dallinizio indossata, intensificata nel corso del dramma, resa inesorabile dalla ultramondana trasfigurazione finale.
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