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Non ci sono regole, solo mezzi

di Giulia Tellini
  Nella solitudine dei campi di cotone
Data di pubblicazione su web 20/04/2007  
Padrone di casa, anfitrione, re e anche gran ciambellano del Teatro Studio di Scandicci, Giancarlo Cauteruccio invita il pubblico a disporsi lungo le prime tre file di poltrone.

Ingombro di valigie, tappeti, una panchina, vecchi cavallini di pezza, sedie da circolo ricreativo, il brutto ritratto imballato nel cellophan di una gentildonna settecentesca, due cornici vuote, una pianola giocattolo ingiallita, una copia della Madonna del latte di Ambrogio Lorenzetti coperta da un telo (e scoperta in un secondo momento), e una serie di buone cose di pessimo gusto che ormai sono divenute inesorabilmente vecchie, - lo spazio scenico si sviluppa in lunghezza, dato che a delimitarne l'esigua profondità è una squallida recinzione, simile a quelle che circondano le zone dei lavori in corso, delle discariche abusive o dei campi profughi. Si tratta di uno dei famosi non luoghi tanto cari ai cultori del cosiddetto junkspace

A occupare lo spazio sono due uomini, uno - vestito di chiaro - se ne sta in piedi nel mezzo, beve e parla (rivolto all'interlocutore ma guardando il pubblico), l'altro, seduto a destra di fronte a un tavolino ricoperto di scatole di latta, tace ma beve pure lui. Poi, spazzate via con un gesto del braccio le cianfrusaglie radunate sul tavolo, comincia a sua volta a parlare - nerovestito, una camicia azzurra. Si capisce che il primo - ingombrante imbonitore, piglio e sorrisi da boss mafioso, a metà strada fra un Tartufo dei sobborghi di qualche grigia periferia urbana e uno Jago manierista la cui ipocrita vezzosità piaciona è finita col trasformarsi quasi in un tic - è un venditore, un fornitore, un dealer. Di cosa? Non si sa. Di qualche cosa proibita, si suppone. L'altro - il bicchiere di liquore molto iperrealista sempre a portata di mano, serio, malinconico, introverso, triste - è invece un compratore, un postulante, un cliente. Si sono incontrati. Quando? Non si sa. Si sono incontrati mentre il compratore percorreva la sua solita, diritta strada. Proprio a metà del tragitto il venditore lo ha abbordato (si usa questo verbo malgrado i due registi dello spettacolo sostengano di aver voluto sgombrare Nella solitudine dal retaggio lasciato dalle precedenti messe in scena che tendevano a far prevalere sulle altre soprattutto la lettura omosessuale del testo). E gli ha rovinato la vita, a quanto pare. 

In un esasperato crescendo drammatico, dal minimalismo verbale e gestuale dell'inizio, il venditore e il compratore - solitudini senza vie di fuga, relitti metropolitani - trovano il modo di esternare sempre più al pubblico le proprie nevrosi. Soprattutto verbali il primo, gestuali il secondo. Schiavo del venditore, il compratore - armato di coltello a serramanico, un sacchetto di carta nella tasca della giacca - è legato con un elastico al tavolino. A un certo punto sale in piedi sulla propria sedia, e si infila il sacchetto sulla testa (come Charlie Brown). Si impicca? No. Il venditore lo riacciuffa e lo porta con sé, verso sinistra: l'elastico si tende fino allo spasmo e poi schizza via. Il compratore, la vittima, torna al suo tavolino, l'altro continua a parlare, a dire che la sua specialità è il «sì». Qualsiasi cosa gli venga richiesta, anche la più assurda e improponibile, lui dichiarerà sempre a chiunque che è in grado di fargliela avere. Mago, artista, virtuoso del sì.


Fulvio Cauteruccio
Fulvio Cauteruccio


 

Mentre il dealer parla, sempre più sudato e meno dignitoso nell'aspetto, il compratore, affranto e in canottiera si rovescia sulla testa almeno due bottiglie di acqua, a significare presumibilmente la propria volontà di depurarsi, di cercare di rimanere se stesso a tutti i costi, senza permettere a nessuno di contaminarlo. Protagonista muto della tragica climax, prende a mazzate un materasso arrotolato su se stesso mentre il venditore, a destra, continua a vomitarsi addosso la propria logorrea e a farsi prendere da crisi convulsive, e infine, colpisce ripetutamente il tavolino di legno col coltello a serramanico mentre l'altro, che non smette di parlare, a ogni colpo sussulta come se la ferita la ricevesse lui nel cuore e non il tavolino nel legno. Prima alza la mazza sulla testa del venditore, e carnefice: poi lo minaccia col coltello, e glielo punta alla fronte. Entrambe le volte il venditore si offre quale vittima sacrificale al compratore, consapevole che non avrà mai il coraggio di ucciderlo.

Gradualmente venditore e compratore sembrano scambiarsi i ruoli. Infatti il primo, a un certo punto, si ritrova a destra e il secondo a sinistra. Sono stanchissimi, esausti. Sempre più plagiato, fagocitato dall'influsso del carnefice, la vittima non ne può fare a meno, sviluppa una sorta di dipendenza, non si sa quanto malsana. Il venditore a destra, il compratore a sinistra si spogliano, si rivestono e paiono  gradualmente assumere le sembianze di Vanna Marchi e di sua figlia. Indosso abiti cangianti, uno verde e uno blu, un po' circensi, un po' carnevaleschi, e punteggiati di paillettes, croce e delizia dell'umorismo pirandelliano, allestiscono con due assi di legno e quattro sedie un rozzo banco di vendita improvvisato. Rossetto sulle labbra, parrucche in testa e sigarette in bocca, magnificano le qualità dei più comuni oggetti di consumo sul mercato, che intanto tirano fuori da alcuni sacchetti e sistemano sul bancone, dal dixan ai tarallucci del mulino bianco, dalla nutella ai lines seta ali. Venditore e compratore si sono scambiati i ruoli? Il compratore è divenuto a sua volta un venditore? Non si sa.

Lungamente atteso, arriva anche il momento metateatrale. L'ex compratore, ex vittima, si avvicina a due signore del pubblico, sedute in prima fila, offre loro un bouquet di fiori finti e a una di loro comincia a leggere una lettera, che l'altro non esita a strappargli di mano. Spiazzata, la vittima ritorna tale, non si ricorda le parole, comincia a balbettare. Come un maestro delle elementari, il venditore lo corregge, lo riprende, lo interrompe, e finisce col prendere il suo posto e dirla, lui, perfettamente, la lettera a memoria. Il duello fra i due, che sembrava finito, con la sconfitta del compratore, mutatosi in venditore, in effetti non è affatto finito. Il gioco al massacro, il rapporto d'amore, il deal, fra vittima e carnefice, debole e forte, non è finito: l'uno non può fare a meno dell'altro, da soli  non sono altro che due inermi solitudini («due semplici, solitari, orgogliosi zeri») perdute in un mondo che respinge e non accoglie, dove ogni cosa è destinata a invecchiare presto, morire e mutarsi in un rifiuto. Visto lo spettacolo una sola volta, rimane impressa una frase: «non ci sono regole, ci sono solo mezzi. Armi». Al centro del palco, i due personaggi, pronti all'ennesimo scontro, si chiedono l'un altro: «quale arma?». Buio pesto in sala. La Madonna di Lorenzetti illuminata con una luce rossa. Scrosci di applausi da parte del pubblico.

Visto lo spettacolo una sola volta, lo spettatore medio si rende conto che del testo non ha capito pressocché nulla. Ha visto molte trovate di regia, però. E ha capito quelle. Si sa che l'intenzione dell'autore non era certo quella di essere comprensibile allo spettatore medio: «un "deal" - scrive a proposito della situazione trattata nel testo - è una transazione commerciale che si basa su valori proibiti o severamente controllati, e che si conclude, in spazi neutri, indefiniti, e non previsti per questo uso, tra fornitori e postulanti, per tacita intesa, segni convenzionali o conversazioni a doppio senso - allo scopo di limitare i rischi di tradimento e di imbroglio che una simile operazione implica».

Lo spettatore medio esce dal Teatro Studio, e si ritrova senza macchina a Scandicci, le undici di notte, gli autobus che non passano, e una gastroenterite da inquietudine. A mente fredda, una dozzina di ore più tardi, si ricorda di due attori straordinari (Michele Di Mauro il venditore, e Fulvio Cauteruccio il compratore), di una regia molto abile (di Annalisa Bianco e Virginio Liberti), del testo senza dubbio bellissimo di un autore che non vuole farsi capire, e di una situazione scenica turbativa, fin troppo vera. E viene visitato dall'idea che dovrebbe andare a vedere lo spettacolo almeno un'altra volta per riuscire a capirlo. Ma ha veramente voglia di capirlo meglio? Questo dipende dallo spettatore, ovviamente.

Koltès scrisse Nella solitudine dei campi di cotone e qualche tempo dopo morì, quarantunenne, di Aids.       




Nella solitudine dei campi di cotone
cast cast & credits
 



Michele Di Mauro e (incappucciato) Fulvio Cauteruccio
Michele Di Mauro e (incappucciato)
Fulvio Cauteruccio


 
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