Sicuramente abbiamo commesso peccati inconfessabili e anche imperdonabili, ma di quelli da profondo dellinferno, se ogni giorno ci tocca accendere la televisione sul primo canale e vedere Affari tuoi (Rai Uno, ore 20.35). Non cè altra spiegazione. Naturalmente si può anche cambiare canale, anzi secondo noi si deve: ma una volta almeno conviene rimanere lì per una mezzoretta se non altro a scopo informativo. Così, se uno si fosse scordato di quale volgarità può essere capace la Tv di Stato, si rinfresca subito la memoria.
Il gioco (già chiamarlo gioco è arduo) è noto, perché siamo, ahimè, alla quarta edizione. Lo faceva Bonolis prima di andare a Mediaset; lo riprese Pupo e ora Flavio Insinna, il “simpatico attore romano” (così sul sito Rai) che attualmente lo conduce e lha portato a un livello di inguardabilità da record del mondo.
Già, perché si tratta di un format internazionale (lo si vede in 40 paesi) adattato allItalia. È proprio vero che noi si prende sempre il peggio. Non labbiamo mai visto, per fortuna, allestero, ma stentiamo a credere che possa essere peggio che qui. Vediamo un po di che si tratta, tanto per scontare qualche peccatuccio.
Intanto, tutto si basa sui soldi. Vabbè, direte voi: tutti i giochi si basano su quello. Vero: ma nessuno, a meno che proprio uno non giochi a tombola o a bingo (versioni più paesane e periferiche della roulette), è così totalmente, assolutamente basato su quello che una volta qualcuno definì signorilmente il Fattore C (trovate una parola che comincia per C e che è sinonimo di posteriore, fondo schiena, sedere ecc.). E fin qui, passi.
Un concorrente (anzi: “concorente”, visto come pronuncia il “simpatico attore romano” di cui sopra) ha un pacco chiuso. Davanti a lui altri pacchi, che contengono o sciocchezze, o soldi. Via via che uno sceglie un pacco, perde quello che cè dentro. Cè un tale al telefono che offre soldi per acquistare il pacco che ha il “concorente”. Lui può accettare, o continuare. Il rischio è che si trovi con un pugno di mosche.
Sai che bel format (lo facevano nelle sagre, e già sembrava stantìo anche lì). Ora, direte: come si fa a tirare avanti per mezzora con questa scemenza? Si fa così.
Intanto, si fa di una trasmissione nazionale ancorché insulsa una roba da fiera di paese, ovviamente dialettofona. Quindi il “simpatico attore romano” (quello che già, interpretando Don Bosco, lo fece parlare con accento ‘de Roma) urla, corre, gesticola, si affanna, suda, si mette le mani nei capelli, si leva la giacca, si tira su le maniche e tutto il repertorio del peggior imbonitore, in dialetto. Urla in romanesco, o in una parlata umbro-sabina, imitando di malagrazia quella di Brancaleone (il film-cult di Monicelli: lì, però, era Gassman a parlare, e si era in un Medioevo da burla…): sbecera roba del tipo “ahò ce semo…! dajie…” o simili. I “concorenti” a loro volta si sentono in dovere di imitarlo: anche loro urlano, si rivolgono al pubblico (becero anche quello), smanacciano. In questa gazzarra veramente da pre-televisione e anche peggio si giocano cifre fino al miliardo: il che, se possibile, rende la cosa anche più volgare, visto che non cè nessuna bravura, nessuna qualità, nessun guizzo dintelligenza – che nel gioco di solito, invece, cè.
È il programma-simbolo di questa Rai: il nulla, rivestito di volgarità. Ed è anche, secondo il nostro modesto parere, indecoroso. È un giocaccio da Terzo Mondo o peggio (diciamo: da Terzo Mondo come se lo immaginano quelli del Primo Mondo), proprio per il suo ‘messaggio: e cioè che per fare soldi – unica cosa che conta – non ci vuole capacità, lavoro, professionalità. I soldi (anzi: “li sordi”) cadono dallalto, e per raccattarli ci vuole una cosa sola. Il C, cioè, per parlar chiaro, il culo.
Postilla linguistica
Sarà una bazzecola, avrebbe detto Totò (scomparso 40 anni fa esatti: un ricordo pieno di rimpianto, visto dovè finita larte comica). Ma ne parliamo per dire dellapprossimazione di questo baraccone: i pacchi sono chiusi con un sigillo di stucco. Bene. Quando quello che sta dietro ai pacchi li deve aprire, il “simpatico attore romano” urla “Stucca!”. Non sa, il simpaticone, che il verbo ‘stuccare vuol dire esattamente lopposto, cioè “ricoprire una superficie di stucco” (De Mauro). Nessuno deve averglielo detto, alla Rai. Beh, ora lo sa.
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