Nellanno del cinquantenario toscaniniano proporre e proprio nella sua Parma una Turandot può assumere valore simbolico: in nessunaltra opera quel rapporto di strenua fedeltà al Verbo dellautore che caratterizzava, almeno nelle intenzioni, ogni esecuzione di Toscanini si concretò in una scelta così radicale. La “principessa di gelo” vide la luce postuma e non completata, e il rigore volle che alla “prima”, da lui diretta, lopera si fermasse nel punto in cui Puccini aveva cessato di comporla; ovvero un tempo era cosa nota anche ai bambini con la morte di Liù.
Marco Berti e Andrea Gruber
Lepisodio ha definitivamente sancito il sapore di “incompiuta” che aleggia su Turandot, non rendendo giustizia allonesto lavoro di completamento di Franco Alfano; suggerendo anzi, a partire dallo stesso Toscanini, una prassi esecutiva dove il conclusivo duetto alfaniano veniva ampiamente sforbiciato e autorizzando altri, in epoca recente, a ricomporre quanto, sul finire dellopera, Puccini non fece in tempo a musicare. Alla resa dei conti, ciò non ha aggiunto nulla dilluminante a una reinterpretazione del finale: la cui “vera” soluzione quasi fosse un quarto enigma da aggiungersi ai tre di Turandot Puccini se la portò nella tomba, ammesso e non concesso (le ultime lettere sembrerebbero dire il contrario) che su questepilogo almeno lui avesse le idee chiare.
Ping, Pong e Pang
Nello spettacolo del Teatro Regio, proveniente dal Covent Garden, si è creduto alla forza dellopera fino in fondo: il direttore Donato Renzetti ha proposto il “finale Alfano” in versione integrale, compreso il monologo della protagonista (Dal primo pianto) incastonato del duetto, che non passerà alla storia della musica ma molto chiarisce sul piano drammaturgico. Daltro canto la regia di Andrei Serban, attraverso un geniale colpo di teatro, sottolinea come con Liù forse non morirà lintera opera, come simbolicamente pretendeva Toscanini alla “prima”, ma certo muore Puccini: sul definitivo calar del sipario, mentre i due protagonisti e il coro celebrano lapoteosi dellamore, passa il carro funebre su cui giace il corpo della piccola schiava, scortato al ralenti da Timur, Ping, Pang e Pong. Come a dire che per ogni felicità che nasce corrisponde la fine di qualchaltra cosa; ma pure a sottolineare come oltre la morte dellautore inizi il grande buco nero: lopera italiana continuerà a produrre lavori e occasionalmente capolavori, ma il melodramma, inteso come stagione di creatività continua, è ormai unesperienza conclusa.
Per il resto, la messinscena di Serban mantiene una compiutezza e una freschezza rare negli allestimenti che circolano da anni e vengono ripresi da mani differenti da quelle del regista (a Parma lo spettacolo è stato riproposto dal suo assistente Jeremy Sutcliffe). Lidea scenica di fondo è quella duna sorta di teatro-agorà, con il coro del popolo di Pechino trasformato in spettatore della vicenda che si svolge sotto i suoi occhi (cosa sono gli indovinelli della protagonista se non una macabra rappresentazione?), ma ad essere sottolineata è soprattutto la dimensione della favola terrifica e crudele: trait dunion tra i vari quadri sono i mascheroni che rappresentano le teste mozzate dei pretendenti di Turandot. La componente ritualistica della vicenda (literazione dei tre enigmi, luntuosità del cerimoniale di corte...) viene risolta, invece, attraverso un capillare lavoro di recitazione corporea: molti momenti dellopera vengono insigniti dun felice contrappunto coreografico, e resterà a lungo nella memoria degli spettatori quella Turandot trasformata in donna-uccello che, con braccia atteggiate ad ali rapaci, circonda Calaf durante gli indovinelli, tentando di annichilirlo.
Gli interpreti
In questo quadro, la protagonista Andrea Gruber si dimostra attrice tanto duttile quanto efficace; e dispiace che allabilità con cui realizza le indicazioni registiche non corrisponda una prova vocale di pari livello. Al fatto, non ci troviamo davanti né allo sferzante soprano drammatico codificato dalla tradizione e suggerito dalla densità dello strumentale cui la voce deve far fronte né a una visione più sfumata del personaggio. Semplicemente ascoltiamo una voce di soprano lirico spinto, o di soprano lirico tout court un po ispessitasi con gli anni, prestata a una visione drammatica o, almeno, altisonante del ruolo. Il tutto corredato da unintonazione non sempre impeccabile.
È un po poco, ma il personaggio esce comunque fuori. Laddove Marco Berti almeno la sera della “prima” è stato un Calaf di scarsa evidenza interpretativa e incresciosi esiti vocali: il suo Nessun dorma, coronato da un “Vincerò” con imbarazzante ripresa di fiato tra le prime due sillabe e lultima (“Vince-rò”), resterà anchesso a lungo nella memoria degli spettatori. Ma in un senso ben diverso da quello di cui si diceva pocanzi.
La voce di Valentina Farcas non ha lampiezza di cavata che si desidererebbe nei momenti solistici di Liù, né quella di Marco Spotti può contare sulla rotondità dellautentico basso qual è Timur, ma né luna né laltro demeritano. Anche se quando, tirando le somme, ci si accorge daver assistito a una Turandot dove lunico cantante ideale era linterprete di Ping (il morbido e timbratissimo baritono Fabio Maria Capitanucci, ben coadiuvato dal Pang di Gianluca Floris e dal Pong di Mauro Buffoli), limpressione di un bilancio negativo è inevitabile, per quanto riguarda il cast.
Marco Berti, Max René Cosotti, Andrea Gruber
A far pareggiare il conto provvede, oltre a Serban, leccellente direzione di Renzetti. Da anni non si sentiva uscire un suono così bello dalla buca dellorchestra del Regio; e lanaliticità della lettura (tutte le sezioni in perfetta evidenza) non va a scapito, come talvolta accade, dellarchitettura complessiva, né la tendenziale lentezza dei tempi che ne è il corollario sfocia in eccessive diluizioni.
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