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Dalla parte degli altri

di Sara Mamone
  "Letters from Iwo Jima"
Data di pubblicazione su web 14/02/2007  
Con Clint Eastwood ormai non resta che aspettare la delusione, la stanchezza di Omero che dormicchia pure lui ogni tanto. Dopo Million Dollar baby e Flags of Our Fathers era dunque possibile che con l'ambiziosa seconda parte del ciclo su Iwo Jima, Letters from Iwo Jima fosse la volta buona. Niente da fare: i 141 minuti dell'opera girata nel dicembre dello scorso anno, in stretta continuità con l'"episodio" del dittico dedicato alla battaglia di Iwo Jima, vinta nella seconda guerra mondiale dalle soverchianti forze americane contro un esausto difensore giapponese, non solo ha conquistato la platea di Berlino, ma è fin da ora un film di cui la cultura occidentale non potrà fare a meno. Perchè cerca di fare ciò che gli americani fanno di rado e cioè si mette dalla parte degli altri. Non "per" gli altri (quante volte gli americani hanno combattuto per la libertà degli altri; tanto che pure l´aberrante teoria della guerra preventiva pare avere qualche onesto seguace) ma "dalla" parte degli altri. Non per assolvere o condannare ma per capire.



Naturalmente il suo far capire non è un teorema ma un raccontare con la forza realistica delle immagini che è una forza occidentale e, dalla nascita della fotografia e del cinema, sempre più soverchiante. E in fondo dall'immagine nasce la prima idea di questo straordinario dittico: da quella celeberrima foto, icona della battaglia del Pacifico, che vedeva i soldati americani (sineddoche dell`intero popolo, o quanto meno dei 7000 rimasti sul terreno) issare sul cocuzzolo dello sperduto isolotto la bandiera dei padri: Eastwood con pietas ma senza pietà intrecciava i piani della memoria, della finzione (la doppia ripresa in loco, la sua messinscena nelle repliche in giro per il paese), della propaganda e anche, in contrappunto, della ricerca di una verità, il destino amaramente "spettacolare" dei reduci, l'atroce eloquenza dei corpi mutilati, delle fosse comuni, dello scempio indistinto. E l'"altro"? L'"altro" il protagonista del secondo film, il manipolo che viene scelto come sineddoche dei 20000 rimasti sul campo di una battaglia che mai avrebbe dovuto essere combattuta, mai avrebbe dovuto essere accettata (non solo noi spettatori sappiamo a posteriori come è andata ma il suo andamento univoco era chiaro a soldati e ufficiali giapponesi)?



L'altro è scrutato avvicinandosi con delicatezza al suo punto di vista, fin nella scelta di un titolo cha banalizza il significato ma vuole immediatamente, onestamente, dare il segno di un rispetto profondo per la cultura altrui: contrapposta alla chiassosa icasticità dell'immagine la millenaria cultura giapponese offre la discreta e intima efficacia della comunicazione epistolare. Sono infatti le centinaia di lettere spedite alla famiglia dall'aristocratico comandante in capo Tadamichi Kuribayashi, cosmopolita, vicino all'imperatore, lucidamente ostile alla missione ma ad essa fedele fino al seppuku finale, a costituire l'ossatura del film. Una scelta individuale, che da' respiro ad una tragedia collettiva. Tutto è dunque come filtrato, nella lontananza della testimonianza epistolare resa con lo slontanamento cromatico (un suggerimento diretto gli viene forse dall´affine Solnze dedicato da Sokurov alla resa dell`imperatore Hiro Hito): non c`è sangue nel colore annientato del bianco e nero ma l'angoscia, il terrore, lo sbigottimento non sono meno visibili. Unica eccezione in questa scelta severa il grandioso avanzamento della flotta statunitense, che occupa con una forza anche visivamente spropositata lo spazio senza fine dell'oceano.



A difendere non tanto il territorio quanto l'onore dell'imperatore il manipolo sempre meno compatto di uomini, diversi per stato sociale, per storia, per carattere: Saigo il panettiere (coscienza elementare di sentimenti e desideri naturali, desidera vivere per vedere la figlia neonata), l'idealista Shimizu, antico poliziotto, il luogotenente Ito che combatte senza incertezze per la causa che ritiene giusta, Baron Nishi, medaglia di equitazione ai giochi olimpici di Berlino del 1935, e, più intelligente, più fedele, più nobile perché più disperato di tutti l'autore delle lettere, il capo Kobayashi, impeccabile nella sua divisa polverosa come nelle tenute di gala indossate nella sua lunga esperienza negli States. Intelligente e disperato come il suo predecessore in Orizzonti di gloria riuscirà soltanto, con la geniale tattica di conduzione della battaglia a portare a 20000 il numero dei suoi morti ma a guadagnare, al di là di ogni ragionevole aspettativa, 40 giorni. Per chi? Per il suo popolo? Per il suo imperatore? E´ forse una domanda troppo occidentale. I tremila anni di fedeltà imperiale possono suggerire domande intermedie, ma non dubbi di fondo. Il destino è per lui l'imperatore. Senza batter ciglio molti dei suoi si sono sottoposti al sacrificio del seppuku (forse la più straordinaria scena del film nella sua pacata serialita) al comandante non resta che chiudere il cerchio. Ognuno è da solo e da solo muore, forse, in occidente ma non in Giappone,dove la cultura del ben morire è il sigilllo del coraggio di vivere. Mentre tutto si occidentalizza l'aberrazione del sacrificio per l'imperatore trova per la prima volta un occhio (e uno sguardo) occidentali rispettosi, in un film che non è antimilitarista ma pieno di disperato sgomento.




Letters from Iwo Jima
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Clint Eastwood


 
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