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L'avaro di Molière: il vecchio e il nuovo

di Siro Ferrone
  Michel Bouquet
Data di pubblicazione su web 23/01/2007  

L’Avaro di Molière è uno dei cavalli di battaglia di Michel Bouquet, il quasi ottantenne attore francese che lo interpreta in queste settimane sulle scene parigine del Théatre de la Porte Saint-Martin. Già sperimentato ai tempi della sua collaborazione con Jean Vilar al Festival d’Avignone e poi al Théatre de l’Atelier di Parigi, il testo diventa l’occasione per una nuova prova d’attore protagonista, capace di estrarre dal suo cilindro magico una gamma variata e ricca di accelerazioni, arresti, rallentamenti, forzature, silenzi. 



                                Michel Bouquet e Juliette Carré

Il suo Arpagon non ama le sottigliezze e nasconde l’amarezza tragica del personaggio dietro una maschera in cui prevale il registro farsesco. Quello che immancabilmente va a segno da più di tre secoli e mezzo grazie al copione dell’attor comico Molière. Il pubblico reagisce entusiasticamente dando così la corda al vecchio mattatore che non si lascia sfuggire la presa e, nei passi canonici, non tradisce chi si fida di lui: forza la voce, lascia cadere le braccia, impietrice il volto, ritma la sua angoscia come si deve, si abbandona agli effetti. La scansione dei tempi di recitazione nella scena-madre con Valère (il bravo Benjamin Egner), quando tutto ruota intorno al fraintendimento sull’oggetto d’amore (il denaro, la donna), è invece un piccolo capolavoro del teatro di parola, realizzato secondo i più classici canoni della tradizione francese. Non scava dentro, Bouquet, ma scolpisce con astuzia la forma. 
 

Asseconda il protagonista attore un complesso di interpreti di notevole interesse. Accanto alle caratterizzazioni farsesche di Jacques Échantillon (Maître Jacques) e di Juliette Carré (Frosine), eseguite con abilità secondo le attese del pubblico, colpiscono – tra gli altri – alcuni giovani attori che danno prova di eccellente dizione, naturalezza e misura. Sono ruoli, quelli dei “giovani innamorati”, che spesso nelle messe in scena delle opere di Molière costituiscono delle semplici protesi di composizione all’interno del disegno monografico. Qui no. Particolarmente sicuro, dotato di una personalità che fa leva su un eccellente controllo della voce, ci è parso Sylvain Machac (Cléante) che sa dar luce a un personaggio ombroso e leale, che vorrebbe poter amare un padre invece tanto disgustoso; analoga padronanza, sul versante femminile manifestano la delicata e leggerissima Mariane di Marion Amiot, quanto la puntuta e essenziale Elise di Sophie Botte. Tra gli altri, merita una menzione la doppiezza rude e malavitosa che Bruno Debrandt riesce a dipingere nel personaggio di La Flêche, mentre si è già detto di Bejamin Egner, rigido nell’obbedire come nell’amore, perfetta spalla per i tempi del mattatore protagonista. 

 

Michel Bouquet, Marion Amiaud, Sylvan Machac
Michel Bouquet, Marion Amiaud, Sylvan Machac

 

La regia  di George Werler ha il merito di non lasciar soffocare i giovani talenti dentro la macchina orchestrata dal primo attore. Così la misurata scenografia (dovuta a Agostino Pace), disegnata e colorata con garbo, dilatata in altezza, vuota e disadorna senza essere sciatta, è del tutto funzionale alla valorizzazione della recitazione. Qualche forzatura si registra nei costumi caricaturali che, disegnati da Pascale Bordet, paiono affliggere alcuni personaggi: lo stesso abito del protagonista, un frac irrigidito e accartocciato, grondante medagliette e catenine; l’esibito cattivo gusto delle toilettes del figlio Cléante (anche lui impigliato in inutili pendagli oltre che gravato da ingombranti cappe); per non parlare della variopinta Frosine abbigliata en grosse pouffiasse. Non che sia illecito scherzare con gli abiti, ma il fatto è che qui l’abito invece che fare il monaco lo tradisca, confonde e distrae lo spettatore da una recitazione che – ripeto – è degna della massima attenzione.



Lettere da Parigi
L'avaro
di Molière
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