Testo poco noto e soprattutto poco rappresentato, Pene damore perdute è stato qualche anno fa rinverdito nella memoria dei contemporanei da un film diretto e interpretato da Kenneth Branagh, che ne offriva una lettura in chiave di scintillante musical da West End. Ora, il Teatro Stabile di Torino ripropone la commedia quale terza tappa del suo progetto "Tre storie d'amore", affidandone la regia a Dominique Pitoiset, direttore del Théâtre National Dijon Bourgogne, insegnante, autore di numerossimi spettacoli in tutta Europa.
La traduzione – che si contraddistingue per la limpidezza e la levità, lintelligenza e lironia che ben restituiscono i raffinati giochi verbali che definiscono drammaturgicamente il play – è stata realizzata ex novo da Luca Fontana che, fra l'altro, aveva proposto di modificare il titolo nel letterale Doglie d'amor sprecate. Suggerimento non accolto e con ragione, poiché la regia di Pitoiset segue un percorso diverso e mira a offrire una sorta di nostalgico divertissement.
Il palcoscenico è un prato verde all'inglese, su cui il ridicolo e trombonesco cavaliere Don Armado gioca a golf e la Principessa di Francia e le sue compagne montano le loro tende e fanno ginnastica la mattina. L'atmosfera ricrea vagamente l'Italia fra gli anni Cinquanta e i Sessanta, con la Fiat Seicento su cui viaggiano le quattro nobildonne, le gonne larghe e le canzoni d'amore dell'epoca che compongono una colonna sonora volutamente stucchevole. Il solenne giuramento che il re di Navarra e i suoi compagni compiono all'inizio dello spettacolo è destinato a essere presto disatteso, come ci suggerisce lo stesso atteggiamento dei quattro, sopra le righe ed evidentemente autoronico. Leggera e divertita è la recitazione dell'intera compagnia, che accoglie l'invito di Pitoiset a creare un clima di spensierata artificiosità, propri di un angolo di mondo in cui l'amore, lo studio e lo stesso teatro sono passatempi piacevoli mentre il male e la fatica sono significanti senza quotidiana concretezza. Il castello nascosto nella foresta in cui il re di Navarra e i suoi compagni si sono rifugiati è un lungo finto, costruito con le icone di un passato che nella memoria ingannevolmente luccica e suscita affettata nostalgia. La regia asseconda il seducente miraggio che guida le scelte dei personaggi del dramma e con benevolenza concede loro unora e mezza di allegra evasione dalla realtà.
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