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Riscoprendo Ademira

di Paolo Patrizi
 
Data di pubblicazione su web 07/12/2006  

Innanzi tutto sgombriamo il campo dagli equivoci: nonostante la rassegna si chiami "Arcadia in Musica", e rechi come sottotitolo "Festival Barocco", Ademira di Andrea Luchesi (1784) con l'arcadia non c'entra nulla e del melodramma barocco presenta solo qualche tardiva scoria. Ci troviamo, piuttosto, di fronte a un lavoro di sostanzioso classicismo, privo di concessioni edonistiche e caratterizzato, soprattutto per quanto riguarda la protagonista, da un marcato psicologismo canoro. Il tutto, sia chiaro, senza derogare alle convenzioni: l'intreccio è ampiamente stereotipato (amore "colpevole" tra la visigota Ademira e il romano Flavio Valente, agnizione finale con relativo happy end...), mentre la narrazione ha il tipico andamento paratattico recitativo/aria, con i momenti solistici inframmezzati solo da un duetto, un terzetto e un "insieme" finale.

Del trevigiano – di Motta di Livenza, per la precisione – Luchesi o Lucchesi si sa poco, al di là della nozioncella, tramandata in vari dizionari musicali, d'essergli spettata la ventura, trasferitosi a Bonn in qualità di kapellmeister, di contribuire alla formazione musicale del giovane Beethoven. Il resto, compresi alcuni presunti scippi musicali di Mozart ai suoi danni, inizia a essere indagato solo oggi; e senza poter parlare ancora di una "Luchesi Renaissance" (ma a Bibbiena già si annuncia un secondo titolo del compositore veneto, per l'edizione 2007), sta di fatto che di Ademire, negli ultimi tre mesi, se ne sono già avute due: prima al Festival Lodoviciano di Viadana, ora in quel gioiellino falsobarocco – in realtà modernissimo – che è il Teatro Dovizi della cittadina casentinese.

A questo punto dovrebbe scattare la consueta querelle filologica: a Viadana s'era ascoltato una sorta di centone con innesti di varia provenienza, Bibbiena presenta invece un'esecuzione con patente d'autenticità, sulla scorta del manoscritto utilizzato, all'indomani dalla "prima" veneziana, per le rappresentazioni dell'opera a Lisbona. D'altro canto, le dimensioni minuscole del Dovizi – privo di buca orchestrale – ha imposto, come sempre a Bibbiena, un organico scarnificatissimo (clavicembalo, quintetto d'archi, fiati ai minimi termini) cui il filologo fondamentalista potrebbe guardare con sospetto; e in quanto alla fedeltà al testo, la locandina non parla di mera regia, ma di una "revisione drammaturgica" a firma di Massimo Gasparon, architetto-scenografo cui si deve la ricostruzione del teatro e la direzione artistica del festival.

In teoria, dunque, anche quello di Bibbiena sarebbe un Luchesi rivisitato. Ma quando si ha a che fare con un autore misconosciuto i confini tra "visita" e "rivisitazione" diventano labili e, comunque, i pochi strumentisti dell'ensemble I Virtuosi delle Muse – ottimi per amalgama, discreti per intonazione – sono riusciti a restituire a ottenere impasti e sonorità stilisticamente affidabili, grazie anche alla concertazione al cembalo, precisa e sicura, di Stefano Molardi. Quanto alla revisione drammaturgica, è discretissima: si limita a sforbiciare alcuni recitativi, alleggerendo la durata e consentendo di raggruppare i tre atti in un unico blocco senza intervallo, che per circa novanta minuti di musica scorre senza stanchezza né sbirciate all'orologio. Certo, la chiarezza dell'azione – sono proprio i recitativi a portarla avanti – talvolta ne scapita: non si riesce a capire, ad esempio, che fine faccia il personaggio di Eutarco, un "cattivo" peraltro messo malamente a fuoco dal libretto. Ma qualche ellissi non pregiudica l'intelligibilità complessiva dell'intreccio, in un’opera basata su un lessico di situazioni ampiamente codificato.

Restano le capacità introspettive del Luchesi drammaturgo musicale; il suo gusto per il realismo psicologico, cui non fu estranea, forse, la militanza anche tra le file dell'opera buffa; la sua fiducia nell'uso di una vocalità talvolta acrobatica, ma soprattutto sensibile alle ragioni della parola scenica, ad esempio nell'intensissimo recitativo accompagnato che precede la grande aria della protagonista del secondo atto. Sono qualità che restano tra le righe del pentagramma, in mancanza di cantanti adeguati. Quelli di Bibbiena, in buona parte, potevano definirsi tali.

Il quintetto vocale – un basso e quattro voci femminili, di cui due en travesti – trovava il proprio punto di forza in Sara Allegretta (emissione controllatissima, timbro molto personale d’una voce in cui soprano e mezzosoprano sembrano convivere), circoscritta nell'ingrato ruolo di Eutarco. Maria Laura Martorana affronta con grande grinta, vocale e scenica, il ruolo della protagonista. La parte di Ademira è caratterizzata da bruschi salti di estensione e inopinati strapiombi in zona grave, che non sempre la voce del giovane soprano – piuttosto ricca e timbrata nell’ottava superiore, assai meno nell'inferiore – riesce a sostenere adeguatamente; ma il personaggio c’è, grazie a un'interprete sensibile e un'attrice che, come si suol dire, buca il palcoscenico. L'altro soprano, Alexandra Zabala, nei panni di Flavio, è chiamato a un cimento altrettanto arduo, sia pure da giocare, in questo caso, su un piano quasi esclusivamente virtuosistico. Qualche fiato un po' corto (cattiva serata?) l'ha tenuta sulle difensive, ma quella della cantante venezuelana resta una voce tutt'altro che trascurabile.

Alarico re dei Visigoti – che qui, anticipando di quasi un secolo Amonasro dell'Aida, disconosce la figlia e la maledice per il suo amore verso il condottiero nemico – era il basso Denis Longo, costretto a lottare con un registro grave molto fioco, ancorché spesso sollecitato dalla scrittura di Luchesi. Quando, soprattutto nei cantabili, la voce riesce a espandersi verso altitudini basso-baritonali, il suono è invece gradevole e robusto. Chiudeva dignitosamente il cast la giovanissima Stella Peruzzi, ovvero Auge: il personaggio al centro dell'agnizione conclusiva e motore del frettoloso lieto fine.

Un lieto fine, peraltro, aleggiante sin dall'inizio nella messinscena geometrica e apollinea di Gasparon, che sembra porre più attenzione allo "specifico" scenografico che a quello registico in senso stretto. Ultimo baluardo – assieme al suo maestro Pier Luigi Pizzi – del melodramma barocco e neoclassico senza deviazioni diacroniche o ammiccamenti contemporanei, e fedele a un'iconografia tradizionalissima, Gasparon è in fondo una sorta di anti-Sellars, anti-Carsen, anti-McVicar. Tradizione o retroguardia? Ai posteri la sentenza, ma corre l'obbligo di dire che in un luogo come il Dovizi, dove l'architettura della sala è già scenografia barocca, questo modo di fare teatro funziona molto bene.





Ademira



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