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Artificio e utopia nell'avventura architettonica di Palladio

di Carmelo Alberti
  il gioco del palazzo
Data di pubblicazione su web 06/05/2003  
Uno dei compiti del teatro è quello di trasmettere allo spettatore la consapevolezza del tempo perduto, senza mai perdere di vista il presente. È avvenuto così a Vicenza, sotto le volte della Basilica, luogo in cui è stato ricostruito il teatro effimero di Andrea Palladio, secondo lo schema a gradinate semicircolari, per rappresentare Il gioco del palazzo ovvero Palladio in piazza, scritto da Howard Burns, «poeta» e studioso dell’architettura, un lavoro che evoca l’appassionante quanto ingarbugliata vicenda del ripristino monumentale della stessa Basilica e il riflesso che tale intervento avrà sulla sistemazione urbanistica di Vicenza.

Si sono mossi in tanti, fra enti locali e regionali per sostenere un progetto – dedicato alla trasformazione cinquecentesca della città – che comincia con la rappresentazione del testo di Burns in quattro differenti soluzioni sceniche, destinate a pubblici di varie età, dall’infanzia alla maturità, con un numero incredibile di repliche, prima di svilupparsi con altre iniziative fino al 2005.

L’evento-guida, accolto trionfalmente, è stato affidato alla direzione di un regista-maestro qual è Gianfranco De Bosio. È degna di ammirazione la passione con cui negli ultimi tempi De Bosio si dedica sia alla valorizzazione di una lingua teatrale ben connotata, quella veneta che va da Ruzante a Goldoni, sia al recupero delle pulsioni della memoria, ambientando gli spettacoli in luoghi e spazi originari: l’aveva fatto con un allestimento ruzantino nella Loggia del Cornaro, ora guida il prezioso svolgimento di un evento difficile, che richiede tutte le sue doti di attento e generoso concertatore.

Il regista ha stabilito fin dall’inizio il ritmo più appropriato al testo di Burns, dandogli rilievo e insieme leggerezza, e guidando un gruppo di ottimi collaboratori per definire uno spazio suggestivo che possiede il respiro dell’infinito, che ricrea l’aura adeguata a seguire le orme del passato. All’interno della grande sala, infatti, il racconto-evocazione si snoda dinanzi ad un frammento del modello in scala che lo stesso Palladio aveva realizzato per convincere i suoi concittadini della bontà del proprio progetto di restauro architettonico. A partire dal luogo, dunque, che rammenta quello in cui sono stati inscenati, nel 1561, l’Amor costante di Alessandro Piccolomini e la Sofonisba di Gian Giorgio Trissino, nasce l’idea di un «gioco» scenico a più livelli, che le immagini di disegni, schizzi, incisioni e pitture, proiettate su tre grandi schermi abbassati dall’alto soffitto, tendono a sospendere in una zona neutra, a metà strada tra artificio e utopia, tra immaginazione e intento progettuale.

Bastano pochi elementi scenici, un carro trascinato con fatica dai boari, un banco da notaio davanti al quale siede il narratore-raisonneur, alcuni sedili d’epoca, l’urna per le votazioni e poco altro per scandire le tappe di una vicenda che accompagna l’attività di Palladio, dall’infanzia al trionfo, da quando è solamente un giovane artefice della pietra fino a che non diviene un architetto rispettato e ascoltato. Intorno guizzano presenze variegate, gli umili scalpellini e i rozzi boari, affannati a trasportare i blocchi di bianca «piera di Piovene», i notabili e i sovrintendenti alla costruzione. In sottofondo, poi, si leva una discreta quanto efficace colonna musicale, che restituisce brani originali del Cinquecento, insieme a elaborazioni d’autore, utili per evidenziare alcuni passaggi specifici.

La magia della rappresentazione sta, anzitutto, nel riproporre il clima di una città che si agita, litiga, si scontra intorno ad un’inestricabile determinazione. Nell’ascoltare gli accesi e graffianti dibattiti del consiglio vicentino pare che non siano affatto trascorsi 450 anni. Nel 1549, dopo lunghe polemiche, il progetto di Palladio sarà accettato, superando di gran lunga la proposta del prestigioso Giulio Romano e la rigidità di quanti pensano di lasciare le cose come stanno, per non sprecare denaro.

Alla stregua di uno spettacolo da teatro-documento, Il gioco del palazzo affida ai dialoghi il compito di indagare il segreto dell’esistenza di un uomo vissuto nel sogno di rinnovare il volto della città, i suoi palazzi, i suoi teatri, sulle orme dell’antichità romana. E allora l’intrecciarsi delle voci storiche, quelle di intellettuali quali Trissino, Romano, Scamozzi e Inigo Jones, con quelle dei consiglieri vicentini, ugualmente rilevanti, con quelle di cittadini comuni, voci che popolano le trame della realtà quotidiana, finisce per trasformarsi in un confronto serrato intorno al ruolo dell’architettura, dell’arte, del teatro, della cultura, vale a dire con i linguaggi che esprimono la consapevolezza di una comunità, l’identità di una nazione.

Il respiro del tempo è sostenuto dalla bravura di un nucleo variegato d’interpreti, che si distribuiscono ruoli e funzioni. Armando e Titino Carrara trascorrono da un esordio popolaresco, alla Ruzante, a parti illustri, il primo è un accorato Fabio Monza, il secondo è un tormentato Vincenzo Scamozzi. Apprezzabili sono stati, fra gli altri, Alberto Allegrezza, Massimo Cavallini, Annalisa Peserico, Carlo Properzi Curti, Giovanni Todescato, Adriano Marcolini, Francesco Vitale (Palladio). Un elogio distinto e pieno va a Nicola Alberto Orofino, che veste i panni del notaio-narratore, del podestà e di Inigo Jones, l’architetto inglese che elogia senza riserve il genio di Palladio.



Il gioco del palazzo ovvero Palladio in piazza
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Il gioco del palazzo
Il gioco del palazzo


 






 
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