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Tutto cambia tranne le avanguardie

di Siro Ferrone
  Isabelle Huppert
Data di pubblicazione su web 06/11/2006  

“Tutto nel mondo cambia tranne le avanguardie”, così si esprimeva qualche tempo fa Jean-Louis Barrault. Per averne una riprova si può andare a vedere lo spettacolo di punta del Festival d’Automne di Parigi, Quartett  di Heiner Müller per la regia di Bob Wilson. Purché riusciate a trovare il biglietto perché il successo di pubblico è indiscutibile come per ogni prodotto che sia stato prima di tutto consumato più volte e ripetutamente pubblicizzato al pari di un dentifricio. 




Ma effettivamente una ragione per andare a vederlo c’è. Non certamente il valore del testo, di un autore largamente sopravvalutato fin dai tempi della sua discutibile militanza nei meandri teatrali della DDR; neanche l’adattamento di Wilson pare drammaturgicamente di un qualche valore: le originali Liaisons dangereuses  di Laclos – che già Müller ha già massacrato e appiattito con significati e intenzioni a dir poco banalizzanti (particolarmente irritante l’ossessione sadomaso che le parole martellano) – qui vengono praticamente liofilizzate in un'antologia irripetibile per vacuità e ridondanza: è vero che la coazione a ripetere è il marchio di fabbrica del coreografo americano ma l’eleganza esibita può risultare affettata e pacchiana. 

Le ragioni per andare a vedere questo spettacolo stanno tutte nella prova, ancora una volta sublime, dell’attrice protagonista, Isabelle Huppert. La quale non ripete certo il capolavoro che aveva esaltato qualche anno fa un’altra prova dello stesso Wilson, quell’Orlando che divenne l’immagine simbolo della versione cartacea della nostra rivista (1994) ma certo tiene ad un altissimo livello una performance in cui i gesti sono calibrati con sintetico nitore, la voce “canta” ogni battuta  senza mai smarrire la padronanza del timbro, i tempi di entrata e di uscita costituiscono il metronomo di tutto l’armamentario scenografico e registico. Da restare incantati.




Dunque tutto ruota intorno a Madame de Merteuil, sacrificando a funzioni a dir poco subalterne il povero partner recitante (ce ne sono altri tre che si limitano a mimare o gestire plastiche posture) Ariel Garcia Valdès: questi meriterebbe qualcosa di più, secondo quanto suggerisce lo stesso testo di Müller, per non parlare del dimenticato Laclos; ma qui “n’est pas question”. Wilson ne fa un pallido riflesso della protagonista, creando effetti tanto marchiani quanto risaputi. Così orchestra uno scambio di parti facendo riemergere un altro luogo comune – quello dello specchio, del doppio, dei gemelli e via banalizzando – che già tante vittime ha fatto nello stupidario corrente del XX secolo. Lui diventa Lei e Lei diventa Lui attraverso un baratto di battute e di voci. Sì perché, mediante il ricorso a deformazioni prodotte dall’impianto di fonica, ma anche mediante una forzatura delle voci di entrambi i recitanti, Wilson intende suggerire l’estremizzarsi del conflitto dei sessi, il duello-gioco per la presa del potere, riuscendo solamente ad enfatizzare la bravura dell’attrice e l’imbarazzo del suo “servo di scena”.
 

Resta la sensazione di avere assistito a uno spettacolo di archeologia teatrale, copia conforme di un rito che sarebbe perduto se non ci fossero ancora i credenti disposti a farsi abbindolare.




Lettere da Parigi
Quartett

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