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Puzzle

di Riccardo Castellacci
  Brad Pitt
Data di pubblicazione su web 02/11/2006  
Babel è il tassello che la coppia regista sceneggiatore Alejandro González Iñárritu e Guillermo Arringa aggiunge ad Amores Perros e 21 Grammi, componendo una trilogia con al centro il tema della frontiera e dell’incomunicabilità, della fragilità dei rapporti fra mariti e mogli, genitori e figli. 

Il film racconta quattro storie intrecciate a partire da un colpo di fucile, da un gesto folle e stupido. Nelle montagne sassose del Marocco due fratellini pastori decidono di giocare a quanto può sparare lontano il fucile che il padre ha regalato loro: centrano un pullman di turisti e feriscono un’americana (Cate Blanchett) subito soccorsa dal suo compagno (Brad Pitt). I due sono in viaggio nel deserto del Marocco, per cercare di recuperare il loro rapporto e si troveranno ad affrontare da soli, in un paese straniero, il dolore fisico e quello dei ricordi. I figli della coppia non sono in una condizione migliore: la bambinaia (Adriana Barraza), tenera quanto incosciente, decide di portarli con sé di là dal confine californiano, in Messico, per assistere al matrimonio del figlio. A queste storie se ne aggiunge un’altra (il cui legame con le precedenti è piuttosto inconsistente): il primo proprietario del fucile usato dai ragazzini marocchini è un giapponese (Kôji Yashuko) che vive con una figlia sordomuta, in piena crisi adolescenziale.


Gael García Bernal
Gael García Bernal

Affidandosi alla sceneggiatura del tessitore di drammi personali Arringa, il regista mette in scena il crollo e la ricomposizione dei rapporti familiari come se fossero le cellule infinitesimali in cui tutta la società può rispecchiarsi. Di fronte alle diversità di lingue e di culture esiste un elemento comune, quello della fragilità dei rapporti umani. Atti sconsiderati o stupidi, che nel film sono commessi dai più poveri, marocchini e messicani, non solo scatenano tragedie imperdonabili ma svelano anche gli schemi su cui si fondano le ipocrisie delle società. Il padre dei bambini marocchini capisce che l’insieme di valori morali in cui crede di aver cresciuto la propria famiglia è a pezzi: il figlio oltre ad aver sparato al pullman passava ore a spiare la sorella compiacente mentre si spogliava. L’americano che ora protegge la moglie ferita aveva abbandonato in precedenza la famiglia. La ragazza giapponese è forse responsabile o è coinvolta nel suicidio della madre. E così via. Nella parabola biblica ognuno alla fine paga la sua colpa o quella dell’altro.

Iñárritu, con il suo stile ormai riconoscibile a chiunque, trasfigura la piccola babele di lingue e personaggi in un repertorio di figure retoriche visive di dubbio impatto, che non fornisce un’immagine della complessità del reale. Il concetto di linearità temporale e geografica è abbandonato in favore di uno stile che frammentando il discorso, rimescolando e ricomponendo tutto, tende ad appiattire e banalizzare i temi. Per parlare del caos si sceglie una forma e una narrazione che di quel caos ne riproduce il volto superficiale, e alla fine emerge una visione quantomeno confusa e debole della realtà.

È indiscutibile l’abilità e la padronanza tecnica della macchina da presa raggiunta dal regista messicano, la sua capacità di lavorare con estrema cura e precisione al montaggio. Tuttavia l’operazione rischia di apparire una ricerca estetizzante volta a compiacere se stessa, un’esercitazione pregevole con alcune scene interessanti quando ispirate all’indagine antropologica - i giochi fra i sassi o le passeggiate fra le tombe dei ragazzini marocchini, il matrimonio messicano, la serata in discoteca della ragazzina giapponese - ma incapace di innescare nello spettatore una vera e profonda commozione nei confronti del film e dei suoi protagonisti.

Il confronto fra attori professionisti e non, che sulla carta si presentava uno degli aspetti più interessanti del film, è condotto a distanza, dato che le scene in cui vi è un contatto o scontro fra i due diversi tipi di recitazione, sono limitate. Anche sotto questo aspetto il regista, che nei suoi film precedenti aveva dimostrato notevole abilità nel dirigere gli attori, sembra più propenso a uniformare che a esaltare le differenze.

Babel tenta di realizzare un discorso sulla complessità del reale, ma finisce per dare un’immagine tortuosa perché somma elaborata di componenti semplici. È un puzzle in cui i pezzi alla fine si ricompongono, senza strappi, senza una vera messa in discussione della linearità, in una visione accomodante della realtà. A dirla in breve il film sta più dalle parti di Crash che non di America oggi o Magnolia e seguendo la linea tracciata dal film di Haggis non potrà sorprendere un’eventuale premiazione a Hollywood.

Babel
cast cast & credits
 
Cate Blanchett
Cate Blanchett


 
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