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Memoriale

di Siro Ferrone
  "Flags of our fathers"
Data di pubblicazione su web 29/10/2006  

Ancora una mossa da Maestro. Questa volta, non inquadrato in una struttura tragica (Unforgiven, 1992; Mystic River, 2003; Million dollar baby, 2004), né abbandonato ad una narrazione epica (come ci si poteva attendere sia dal soggetto "militare" che dal co-produttore Steven Spielberg), né tentato da allusioni all’attuale revival militarista americano in Iraq o Afghanistan, il grande regista americano approda al tema della memoria. Quel tema che il celebrato Saving Private Ryan (1998) di Spielberg aveva sfiorato in un prevalente gusto mélo.

Si parte da un’immagine che ha "fatto" la storia della guerra americana nel Pacifico: la foto dei marines che innalzano la bandiera a stelle e strisce su una vetta dell’atollo di Iwo Jima. Un documento-monumento che finisce sui giornali di tutti gli stati americani, diventa manifesto, statua, simbolo di una vittoria. Il popolo americano si commuove, vuole identificare e conoscere gli eroi appunto "immortalati". Il governo del presidente Truman trasforma quell’iconografia in veicolo pubblicitario per raccogliere, con l’aiuto di tre soldati presunti partecipanti all’impresa, il denaro necessario per continuare e vincere la guerra.


A queste trame, che vedono i tre marines (Ryan Pillipppe, Jesse Bradford, Adam Beach) diversamente convinti, interpretare la parte assegnata come in una fiction, Eastwood intercala due altri tempi storici. Da una parte, situandosi nel nostro presente, affida al figlio di uno dei presunti eroi il compito di condurre una ricerca nel tempo perduto, l’anamnesi di un trionfo che coincide con l’interrogazione sulla storia dei padri. Dall’altra ci immette nel cratere sanguinoso della guerra dove alla memoria si contrappone la sua smentita mentre la ricostruzione propagandistica viene schiaffeggiata a colpi di crudeli flashbacks.

I tre tempi sono segnati da ritmi diversi (Eastwood firma come al solito anche la colonna sonora che sottolinea con misura queste variazioni sul tema): una fotografia pacata, quasi televisiva, accompagna l’inchiesta del figlio nostro contemporaneo; soggettive aspre, barbarismi ottici, strappi di sequenze, marcano la ricostruzione delle scene di battaglia che tentano di oltrepassare la maniera dei vari Coppola, Spielberg, Kubrick, Terrence Malick, magistrali nel genere; un realismo fatto di primi piani, controcampi, piani americani, alternati a ricostruzioni storicizzate nell’America del 1943, accompagna la rappresentazione della "commedia" che i presunti eroi sono costretti a recitare davanti al pubblico che li applaude o al governo che li "usa".


Questi tre tempi narrativi – orchestrati come in un partitura jazz – consentono a Eastwood di confrontare le fonti e di smontare così l’impostura della storia monumentale basata su un teorema indiziario politicamente "scorretto". Intanto quella foto che proiettò nella gloria effimera i tre piccoli fantaccini non fu la testimonianza del gesto "autentico" dei soldati vittoriosi, ma il riflesso di una "messa in scena" ripetuta a beneficio di un secondo fotografo da parte di una seconda pattuglia. Ma la storia ufficiale, soprattutto quella militare, non tollera sfumature. I protagonisti-non-protagonisti di quella iconografia trionfale (ma riaffiorano alla memoria altre foto-feticcio come quella che immortala i soldati dell’Armata Rossa sul tetto del Reichstag caduto, o quella che vede un militare di Saigon sparare alla testa di un vietcong) vengono impegnati in una serie di tournées attraverso gli Stati Uniti, culminanti con la vera e propria messa in scena teatrale della loro azione trionfale in una finta collina di plastica davanti a un pubblico da stadio. Della loro azione scenica si riproducono centinaia di migliaia di manifesti, la loro postura statuaria diventa un dessert grottescamente ricoperto da una salsa di ribes color sangue servito in una delle tante feste di gala organizzate a sostegno dell’esercito.

Intanto sfilano in contrappunto le immagini folgoranti dei corpi mutilati degli americani e dei giapponesi, ammucchiati dentro le fosse comuni scavate dai colpi di cannone oppure colpiti da casuali tracciati di proiettili oppure seviziati dal nemico a sua volta terrorizzato. E dall’altra parte la solita commedia della politica e dei politicanti così poco graditi all’anarco-individualista Clint.


La rappresentazione della tragedia militare, che Stanley Kubrick in Paths of Glory (1957) o in Full Metal Jacket (1987) aveva mostrato con altrettanta durezza, qui diventa l’occasione – come spesso in Eastwood – di una riflessione morale, laica e disperata, sull’uomo e sulla sua solitudine sociale. Dei tre piccoli eroi uno (il più tormentato, il buon soldato indiano) muore di stenti e di rimorso per l’inganno "interpretato", gli altri due trascinano a conclusione la loro vita tacendo a se stessi e al mondo il segreto di quella impostura.

La guerra è tragica non solo per le vittime, ma anche per i vincitori. E l’illusione più grande dei fantaccini è quella di essere protagonisti di una Grande Storia: un sogno soprattutto americano, tanto dell’epoca di Truman come di quella di Kennedy o di Bush.

Ognuno è solo e da solo muore, secondo Eastwood. Come quel soldato che vediamo cadere accidentalmente in mare da una nave della flotta americana diretta a Iwo Jima. Le altre imbarcazioni non possono fermarsi e lo abbandonano sotto gli occhi dei compagni impotenti. La macchina da presa inquadra un puntino sempre più piccolo che inutilmente chiede aiuto a chi va incontro, a sua volta, alla morte.











Flags of our fathers
cast cast & credits
 
 


 






 

 

 

 


 

Clint Eastwood sul set del film
Clint Eastwood sul set del film

 

 
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