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L'armata branca(napo)leone

di Marco Luceri
  N, io e Napoleone
Data di pubblicazione su web 25/10/2006  

Alla Festa del Cinema di Roma (che tanto spazio ha dedicato al cinema italiano contemporaneo) è stato uno dei film più attesi; N, io e Napoleone, il nuovo lavoro di Paolo Virzì, tratto dal romanzo N di Ernesto Ferrero (ed. Einaudi, premio Strega nel 2000), segue di tre anni il successo commerciale di Caterina va in città (2003) e conferma l’interesse del regista toscano verso un genere, la commedia, che faticosamente sta cercando di riemergere, almeno negli intenti, nel panorama della produzione nazionale. In verità il film di Virzì è frutto di una co-produzione europea (Francia, Italia e Spagna), a testimonianza del fatto che ormai in Europa per realizzare una commedia "in costume" da un budget rispettabile bisogna cercare di ragionare in termini sovra-nazionali. Da questo punto di vista N, io e Napoleone pare aver centrato gli obiettivi, pur restando chiaramente un film dal carattere "nazionale" fortemente spiccato.

Ambientato nell'isola d'Elba durante i giorni dell'esilio forzato che gli inglesi imposero a un Napoleone (Daniel Auteuil) temporaneamente sconfitto, il film narra la vicenda del giovane maestro Martino Papucci (Elio Germano), ultimogenito di una famiglia di commercianti di Portoferraio (il fratello è interpretato da Valerio Mastrandrea, la sorella da Sabrina Impacciatore e la giovane servetta da Francesca Inaudi) . Idealista e libertario poeta in erba, amante della bella Baronessa Emilia (Monica Bellucci), Martino ha il segreto desiderio di uccidere il tiranno che ha tradito la rivoluzione e che ha mandato a morte sui campi di battaglia di tutta Europa tanti giovani che credevano in lui. L'occasione si presenta grazie ad un posto come scrivano e bibliotecario presso la dimora di Napoleone che il ragazzo accetta con entusiasmo convinto di poter portare a termine il suo progetto.


Virzì si muove sul terreno a lui familiare della commedia, che ancora in molti spesso definiscono "all’italiana". Il regista toscano si è sempre dedicato a film di genere (più o meno riusciti) che hanno cercato di riportare in auge le strutture formali e contenutistiche di un filone storico che ha avuto la sua fortuna nel cinema italiano degli anni Cinquanta e Sessanta grazie a un manipolo di registi (Monicelli, Risi, Mastrocinque ecc.) e di attori (da Gassman, Sordi, Tognazzi, Manfredi alle decine di caratteristi) che di quel genere fecero la fortuna. Tuttavia sembra eccessivamente ingombrante e anche fuori luogo quella definizione per il cinema di Virzì, che nella sua più recente produzione sembra aver sclerotizzato fino al parossismo i codici del genere. In sostanza N, io e Napoleone ripropone i limiti strutturali che già avevano gravato sul precedente Caterina va in città; nei due film infatti si cerca di dare un’immagine del nostro Paese attraverso la lente deformante, appunto, della commedia di costume: le "maschere" sociali, la ripetitività dei ruoli, la tipizzazione dei personaggi, lo svolgimento narrativo episodico, le battute al vetriolo, il tono tragicomico. Questi elementi, patrimonio del genere, che dovrebbero costituire la solida ossatura di una commedia acuta e "senza sconti", vengono edulcorati da Virzì in un semplicismo scenico e drammaturgico che ne svuota la portata.

Caterina va in città era appunto un film a tesi, alla fine del quale la morale sembrava essere "rossi e neri tutti uguali": un’infelice apologia del qualunquismo nostrano, che tutto faceva tranne che descrivere con acume e intelligenza i nuovi "mostri" che si erano creati nell’italietta berlusconiana. Lo stesso semplicistico approccio drammatico Virzì lo dimostra nell’ultimo film. A nulla vale lo scarto temporale (si passa della Roma contemporanea alla Toscana granducale), anche nell’affresco storico il regista concentra la dinamica dei fatti su un gruppo di personaggi principali tralasciando il resto, cioè l’ambiente, la selva brulicante del popolino, che resta irrimediabilmente "solo" sullo sfondo. La traccia più evidente di questa difficoltà a sfruttare i vivi meccanismi del genere risiede nella pessima prova data dagli attori, soprattutto quelli più giovani, Germano e la Inaudi.


Daniel Auteuil dà una buona prova di mestiere e niente più, la Bellucci e Mastrandrea soffrono tantissimo rispettivamente la dizione umbra e quella toscana, ma sono i due attori giovani che sbagliano completamente l’approccio ai personaggi. La colpa probabilmente ha più padri e risiede non tanto nella tipizzazione delle due figure (il giovane ribelle, ansiogeno, ma un po’ imbranato e la giovane e fragile servetta innamorata, ma non corrisposta), abbastanza scontata, quanto sia nella direzione scenica (che bisogno aveva Virzì di dirigere i due attori facendoli muovere sulla scena in maniera inconsulta, esagerando i loro movimenti fino al ridicolo?), che nello studio e nella preparazione stessa data da Germano e dalla Inaudi nel loro lavoro. Insomma, la loro completa mancanza di controllo sulla gestualità, sulla mimica e sulla vocalità fa pensare che abbiano scambiato il set di un film per un palcoscenico teatrale, o, peggio ancora, che siano stati abituati a farlo, visto che ormai pochissimi dei nostri giovani attori sono preparati ad affrontare la mdp, e si trovano molto più a loro agio a teatro o addirittura sui set delle fiction televisive..

Basta vedere nel film la differenza tra la recitazione di Auteuil e quella di Germano nelle scene in cui i due si trovano faccia a faccia: l’attore francese è misuratissimo nella gestualità essenziale del volto e del corpo, riesce cioè a dare al movimento la giusta misura dell’autocontrollo, essenziale nella recitazione cinematografica, in cui meno si "agisce" e meglio è; Germano invece sembra trovarsi su un palcoscenico teatrale di bassa lega o in uno studio televisivo: è tutto un esagerare inconsulto e immotivato delle braccia, del corpo, del volto, dei movimenti fisici nel loro complesso.

Può essere questa differenza tra i due attori solo frutto di esperienza e di mestiere?


Nessun giudizio di merito, naturalmente (questa non sarebbe la sede adatta), ma quello della preparazione e della direzione dell’attore cinematografico sta diventando un problema serissimo per la nostra cinematografia di oggi. A ciò si aggiunge anche il fatto che il cinema italiano soffre della mancanza di quella variegata e fondamentale schiera di caratteristi che hanno fatto grande la commedia all’italiana negli anni Cinquanta e Sessanta. In N, io e Napoleone è assente, come si era accennato prima, un quadro d’ambiente "attoriale": si relega questo alla sola presenza del "povero" Massimo Ceccherini, relegato ai margini della dinamica narrativa, che nel film ce la mette tutta e in parte ci riesce ad essere credibile.

Per questi motivi sembra errato parlare di commedia "all’italiana" a proposito di un film come N, io e Napoleone, che funziona in parte come puro divertissement, visto che non riesce a fare un discorso spietato e lucido sul quel passato, né tantomeno sul presente. Il ritratto che ne deriva è puro artificio, esercizio da commediante e niente più. Sembra che il film galleggi tra l’affresco storico e la commedia di costume senza avere l’anima né dell’uno né dell’altra. Qualche risata e un’iniezione di italico fatalismo, insomma. Sembra davvero poco per far tornare in mente L’armata Brancaleone. Senza rimpianti, naturalmente.





N, io e Napoleone
cast cast & credits
 
 


 



 

 

 

 


 

Paolo Virzì
Paolo Virzì

 

 

 




 

 
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