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Oltre il cinema

di Marco Luceri
  INLAND EMPIRE
Data di pubblicazione su web 09/09/2006  
Erano passati quattro anni. Quattro lunghi anni dagli incubi visionari lasciati da David Lynch sulle strade perdute di Hollywood. Muholland Drive si (s)chiudeva sulle nostre coscienze di spettatori in una lunga impenetrabile parabola della non-identificazione, del non-senso (e non del non sense), dell’eccessiva, spettrale essenza del cinema: la fantasmagoria. La lente deformante e distorta di una macchina da presa e di uno stile riconoscibile e alto tra tutti, quello lynchiano appunto, che fa entrare il sogno l’incubo l’orrore in una traccia continua di sottile, spietata paura. Paura di cosa si sta guardando. E perciò paura di guardare. E di essere guardati.


 

INLAND EMPIRE (ma sì, scriviamolo in maiuscolo, così come è stato misteriosamente stampato sul programma della Mostra di Venezia) comincia o finisce dove Mullholand Drive si proiettava, sullo schermo visivo e sonoro di un’allucinazione collettiva: le due donne, la costruzione del cinema, la conquista del mistero, no hay banda. Un’altra collina di Hollywood, un’altra zona dell’incubo, un altro film da vedere seduti in prima fila, con le immagini gigantesche che ti cadono addosso come in un sogno imperscrutabile e angosciante: per (non) capire che entrando in esse tutto irrimediabilmente si perde, per (non) capire che non siamo noi a guardare il film, ma è esso a guardare noi.

Laura Dern: attrice-feticcio-simbolo, un corpo, una voce, una maschera orrendamente deformata dalla paura ancestrale, in un profluvio di primi piani, Eraserhead che ci porta nel cammino della sua vita, della sua storia e del suo film incompiuto perché maledetto. Tracce narrative esili, ma riconoscibili, in un gioco di scatole cinesi in cui ogni storia sembra iniziare dove l’altra finisce, e viceversa, allucinazioni che distruggono le forme drammatiche per ricomporle in un quadro astratto, ma mai incompiuto. Nel film non esiste un non-sense, il senso c’è, eccome. Basta lasciarsi trasportare indifesi nelle maglie dell’incubo, e tutti i pezzi alla fine si ricompongono: i film nel film, la città infernale, la perdita d’identità, i miti della modernità, Benjamin e Kubrick, occhi aperti chiusi.




 

Ma non ci sono solo visioni. Lo straordinario e inquietante uso del sonoro fa del film di Lynch una lunghissima partitura dell’orrore, un poema musicale di artifici, rumori, urla, scatti armonici, pura psichedelica che si trasforma in drammaturgia. E’ il suono deformante del sogno, delle apparizioni fantasmatiche, dell’orecchio che non sente, e perciò non comprende (non era forse l’orecchio mozzato di Velluto blu la re-immaginazione dell’occhio squarciato di Un chien andalou?). E’ un cinema della pura percezione? Probabilmente sì, visti i ritmi rutilanti, riprodotti, eterei della contemporaneità. E’ il cinema in cui si compie definitivamente il processo della post-modernità? E’ quindi il cinema veramente possibile oggi? Forse non è dato ancora saperlo. Certo è che l’infrangersi dei corpi-personaggi, la destrutturazione del linguaggio e l’implosione incontrollata di ogni elemento narrativo, facendoci saltare oltre il buio del futuro, ci riportano come per magia, alle origini della visione. Con una nuova coscienza: quella di aver attraversato, come Laura Dern, un film maledetto, quello del Cinema. Per tornare a stupirsi, senza essere ingenui.

Le immagini sono ancora le finestre attraverso cui il mistero del mondo e della realtà entra nella nostra vita? Saremmo forse umani senza le ombre? INLAND EMPIRE.



INLAND EMPIRE
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David Lynch
David Lynch



 
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