Uno dei più importanti autori italiani contemporanei, Gianni Amelio, torna alla Mostra di Venezia dopo solo due anni dal successo de Le chiavi di casa. Per il suo ultimo film il regista calabrese si è ispirato liberamente a un romanzo, La dismissione, di Domenico Rea, coinvolgente racconto sulla fine della grande acciaieria Ilva di Bagnoli vissuto attraverso gli occhi di Vincenzo, tecnico manutentore ossessionato dalla volontà di consegnare lo stabile in ottimo stato ai nuovi acquirenti cinesi. La stella che non cè prosegue nella dimensione cinematografica lo scritto letterario, in un seguito che porta Vincenzo Buonavolontà (Sergio Castellitto) in Cina alla ricerca dellacciaieria perduta e di un difetto segreto da dover riparare.
Arrivato in Cina, Vincenzo trova e cerca Liu Hua (lesordiente Tai Ling), giovane traduttrice dal passato misterioso conosciuta in Italia, e dopo non poche difficoltà i due si mettono in cammino lungo le strade dellimmenso Paese alla ricerca dellacciaieria, attraversando metropoli, fiumi, laghi, deserti, a bordo dei mezzi più disparatati per migliaia e migliaia di chilometri.
Sergio Castellitto
Amelio riprende il tema caro del viaggio che ha segnato alcuni dei migliori titoli della sua carriera: da Il ladro di bambini e Lamerica, fino a Le chiavi di casa, incentrando ancora una volta la narrazione su un cammino che accomuna il destino di due personaggi differenti per carattere e storie personali, come nel caso di Vincenzo e Liu. Loperaio di Bagnoli è un personaggio fuori dal comune, una sorta di moderno Don Chisciotte, un eroe improbabile e inconcludente che si aggira tra i mulini sconosciuti del gigante asiatico con un piccolo bagaglio e i suoi antichi valori. Un personaggio di quelli narrati nelle fiabe insomma (e il cognome lo conferma), protagonisti determinati a compiere imprese impossibili, fuori dalle loro umane possibilità, che intraprendono dei viaggi rischiosi per salvare qualcuno e alla fine conquistano in realtà se stessi.
Come in ogni fiaba-viaggio che si rispetti il deuteragonista è in parte lalter ego del personaggio principale, e in effetti Liu, che per colpa di Vincenzo ha perso il lavoro di traduttrice, ripercorre un viaggio nel suo passato più doloroso (una delle tappe è il villaggio dove lei è nata, in cui vive il suo bambino, figlio di una relazione fallita), accettando di fare la guida in un Paese che in realtà conosce poco anche lei, pur sentendosi parte integrante di una brulicante comunità costantemente in bilico (come lei) tra passato e futuro.
Costruendo il film su questo semplice ma efficace impianto narrativo, Amelio procede per epifanie. In un cammino così lungo e complesso è attraverso lo sguardo straniato e problematico di Vincenzo che vediamo i paesaggi umani e naturali di una Cina al contempo moderna e antichissima, segnata da problemi millenari e slanci in avanti, in un ritratto che rifugge volontariamente gli stereotipi che i media hanno costruito sulla Cina gigante dallincredibile crescita economica, sul Paese comunista segnato dal liberismo più selvaggio. In realtà il regista calabrese, mostrandoci una molteplicità composita del Paese, non descrive la Cina di oggi, ma fa un più ampio discorso sul rapporto tra uomo e modernità in un senso più alto e universale.
Tai Ling
Attraverso la realizzazioni di immagini potenti (grazie anche alla solita bravura di Luca Bigazzi, ispirato come non mai), intrise di un pittoricismo mai compiaciuto, vere e proprie tracce di uno sguardo attratto dallalterità del mondo, ogni elemento del paesaggio diventa unepifanica visione della realtà: i ponti, le strade, le dighe, i palazzi, le stazioni diventano finestre aperte sul mistero del mondo e il tono fiabesco del film spinge lo spettatore dentro questa precarietà ineluttabile. Gli occhi di Vincenzo guardano una Cina sconosciuta (dove in un enorme palazzo possono vivere e lavorare ottomila persone, ma in cui cè un fortissimo senso della collettività) con la stessa intensità con cui la vedono quelli di un piccolo bambino cinese, il figlio di Liu. Sono i momenti più riusciti del film, quelli in cui lo sguardo di Amelio si sposta sulla contemplazione della realtà umana e della bellezza sconosciuta del mondo, che in ogni epoca e in ogni angolo del pianeta conservano il medesimo fascino del mito; in questo La stella che non cè si avvicina molto allatmosfera sospesa del bagno battesimale che chiude Il ladro di bambini. LItalia e la Cina, proiettate in questa dimensione fiabesca e mitica, ma attualissima nella sua più cocente realtà quotidiana, diventano due paesi contemporaneamente vicini e lontanissimi, uniti dallesile ma lunga traccia di unepoca continua che sembra annullare il passato nel futuro e viceversa.
Un ruolo importante nellequilibrio del film è sostenuto da Castellitto, il cui personaggio è un raro caso di uso dellattore in funzione di raccordo narrativo e visivo tra una scena e laltra. Interprete impeccabile di un personaggio a suo modo portatore di unumanità visionaria è diretto da Amelio in maniera profondamente diversa da come Marco Bellocchio lo ha fatto per L'ora di religione e per Il regista di matrimoni. Ne La stella che non cè Castellitto fa un maggiore uso della mimica facciale, stemperando gli scatti corporei e le stridenti alternanze di tono dei film di Bellocchio, per consegnarci un ritratto di Vincenzo equilibrato e profondo, a tratti duro, a tratti intriso di una profonda dolcezza. Questo a dimostrazione di una spiccata versatilità interpretativa e di una grande disponibilità professionale: non è da tutti far modellare la propria creatività da sensibilità registiche così spiccatamente diverse.
|
|