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Un dipinto di De Chirico
da Parigi

Gherardo Vitali-Rosati
  Fanny Ardant in una scena dello spettacolo
Data di pubblicazione su web 01/08/2006  

I nomi di due fra le più note stelle della scena teatrale e cinematografica francese brillano da qualche tempo sulle locandine che ricoprono i muri della città di Parigi: Marguerite Duras, della cui morte ricorre quest’anno il decennale, e Fanny Ardant , unite dal Théâtre de la Madeleine per una nuova produzione de La Maladie de la mort (dopo la nota messa in scena di Bob Wilson, con Michael Piccoli come attore protagonista).

Originariamente la pièce prevede due attori ed è scritta come un unico discorso rivolto ad un “voi” che si rivela il protagonista passivo dell’azione. Il narratore, che secondo le didascalie dovrebbe leggere in maniera distaccata e mai interpretare, racconta la storia di un uomo che decide di stipulare un contratto con una donna, per trascorrere un certo numero di notti con lei.Ogni volta le sue frasi colpiscono il lettore/spettatore con questo “voi” che gli attribuisce il peso di ogni singola azione del personaggio affetto dalla Malattia della Morte, che consiste semplicemente nell’incapacità di amare. Le parole e le azioni della donna sono ugualmente introdotte da “lei dice…” o “Lei grida…” cosicché nessuno dei due attori teoricamente presenti in scena può permettersi di dare realmente vita al proprio personaggio, entrambi costretti a farsi carico anche delle didascalie, delle descrizioni e quindi a creare immancabilmente un distacco.

 La regia di Bérangère Bonvoisin sceglie di non rispettare la distribuzione suggerita dall’autrice e affida l’intero testo ad Ardant, lasciando quindi sparire definitivamente ciò che restava dei due personaggi, e trasformando la pièce in un testo letterario. L’attrice dice sempre il suo testo restando perfettamente immobile, ma di tanto in tanto le sue pose cambiano, come una sequenza di fotografie: se all’inizio stava in piedi ad un estremo del palcoscenico, passerà poi a sedersi sul margine, o a voltarsi. Due volte effettua anche una camminata che la conduce in una camera che appare in fondo alla scena; ma non dirà una parola fino a che non sarà tornata ad assumere una nuova posa sul proscenio.

Ogni spostamento è seguito magicamente dalle luci di Ricardo Aronovich, capaci realmente di animare questo spazio mortifero, riportando a volte la luce del sole, a volte la calda intimità di una candela.  Per il resto niente cambia, niente si muove, niente è vivo sul palcoscenico. Il tono di voce dell’attrice resta immutabile, pacato; il suo volume è sempre basso, appena percettibile, senza mai variare. Il vuoto assoluto è creato, in una scena che ricorda i dipinti metafisici di De Chirico.

 Del teatro nessuna traccia, resta solo una serie di meravigliosi scatti fotografici messi in sequenza; una decina, forse, su una durata di un’ora. L’idea della morte è sicuramente veicolata grazie già alle peripezie del testo e poi alle pose immobili dell’attrice, ma niente più di questo. Da dove nasca questa morte interiore dell’uomo che sceglie questa strada per cercare l’amore, che cosa cerchi la donna, con le sue domande, non lo si capisce. Sembra che le scelte di regia siano state più condizionate da logiche produttive che da idee artistiche; peccato.


Lettere da Parigi
La Maladie de la Mort

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