Un omaggio alle potenzialità emozionali e spettacolari del teatro e allo stesso tempo una dimostrazione della loro rigogliosa e persino lussureggiante sopravvivenza ancora oggi. La messa in scena del dramma di Pirandello ci restituisce il Castri migliore e il piacere di assistere a un "grande spettacolo", realizzato senza risparmio di energia e di immaginazione così come di mezzi e di espedienti più squisitamente teatrali. Un folto cast e frequenti cambi scenografici, costumi preziosi e l'abile sfruttamento di ogni spazio disponibile – palcoscenico, galleria, platea e persino foyer.
E, ancora, il metateatro e i numeri da avanspettacolo, la commedia e il monologo, il melodramma e la processione religiosa. Si susseguono senza soluzione di continuità il palco teatrale e il cabaret, la casa assai accogliente della signora Ignazia e delle sue quattro figlie e quella divenuta grigio carcere in cui il matrimonio ha rinchiuso l'infelice Mommina, il nudo palcoscenico sul quale la compagnia discute animatamente e la grandiosa scena de Il Trovatore che conclude in un emozionante crescendo lo spettacolo. Una sorta di policromo compendio delle differenti forme del teatro e, insieme, una riflessione – lieve e lontana da ogni pedanteria però – sull'immedesimazione fra attore e personaggio e sul ruolo del regista, spesso demiurgo, incapace di flettere la propria concezione drammaturgica e di adeguarla a quella sviluppata autonomamente da ogni singolo interprete.
Castri, tuttavia, scansa abilmente gli errori commessi dall'autoritario Hinkfuss e guida con discrezione i propri esperti attori. Così Vittorio Franceschi è un capocomico sornione anziché ciecamente dispotico, forse perché in fondo solidale con le ragioni della sua agitata troupe; mentre Valeria Moriconi piega con grazia sapiente tutta la sua innata eleganza ai modi ridondanti e petulanti dell'attrice cabarettista/Ignazia. Alarico Salaroli è un brillante adeguatamente allampanato e querulo, ingenuamente innamorato di una fascinosa chanteuse e orgoglioso nel difendere il proprio diritto a recitare fino in fondo la sequenza della sua morte. Sergio Romano, poi, è un primattore dal fisico prestante e dai modi decisi e sicuri, altezzoso e convenientemente "antipatico".
Prove d'attore tutte mature e intense fra le quali, però, spicca quella fornita da Manuela Mandracchia che, se nella prima parte può dispiegare il proprio ben saggiato talento brillante, nell'ultima mezz'ora dello spettacolo riesce a incatenare l'attenzione e il cuore dello spettatore interpretando con toni e gesti spezzati, allucinati e schizofrenici il monologo di Mommina morente: esaltazione e disperazione, lacrime e risa, il canto ben intonato di un'aria da Il Trovatore e i movimenti avvolgenti dell'artista lirica. Una performance sfaccettata e rotonda che sigilla uno spettacolo esuberante ed emozionante, un magnifico atto di speranza nel futuro del teatro.
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Questa sera si recita a soggetto
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