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L'inaspettato morso del teatro

di Noemi Bertuetti
  Yves Lebreton
Data di pubblicazione su web 13/06/2006  
Montespertoli, Villa dell'Olivo. Durante la permanenza di un gruppo di allievi per un laboratorio residenziale di Mimo corporeo, Yves Lebreton si è offerto gentilmente di rispondere alle domande di una studentessa universitaria affascinata dalla sua straordinaria vita artistica e impegnata nella stesura della sua tesi di laurea dal titolo Yves Lebreton: il teatro corporeo (Università di Bergamo, Anno Accademico 2004-2005, tutor prof. Anna Maria Testaverde). Davanti ad un camino scoppiettante, sorseggiando vino rosso e giocando con la sua poetica comicità Monsieur Baloon traccia con semplice leggerezza la strada che l’ha portato al Teatro.

 

Che cosa l'ha spinta ad avvicinarsi al mimo corporeo e a entrare nella scuola di Etienne Decroux?

Nessuna decisione, solo il caso. Prima di intraprendere la via del teatro la mia passione era la musica. Studiavo il violoncello, il pianoforte e volevo dedicarmi alla composizione musicale. I miei Maestri erano Arnold Schoenberg, Pierre Boulez, Karleinz Stockhausen, e soprattutto Anton Webern. Contemporaneamente seguivo i corsi all'Accademia delle Belle Arti che preparava al diploma d'insegnante per le scuole elementare e superiore. Il disegno e la pittura erano per me dono della natura. Era l'unica materia a scuola dove ero sempre il primo della classe. Da bambino disegnavo ovunque: sui quaderni di matematica o di francese, sui muri di casa e sui marciapiedi. Mi risultava facile e mi piaceva. Forse ho acquisito questo dono per eredità, visto che sia mio padre sia mia madre avevano seguito una formazione alle Belle Arti.

L'insegnamento della pittura all'interno dell'educazione nazionale francese avrebbe dovuto garantirmi una sicurezza materiale per permettermi di proseguire la mia ricerca musicale al riparo da ogni pressione e compromessi commerciali. La mia strada era tracciata. Ma non avevo fatto i conti con l'imprevisto. Durante i miei studi all'Accademia delle Belle Arti, si è presentato, un giorno, un maestro che insegnava nella scuola elementare situata a fianco dell'Accademia: Mr. Rubac. Questo maestro era appassionato al teatro e sognava di poter creare una compagnia teatrale in grado di interpretare i testi da lui scritti. Ha presentato il suo progetto invitando a partecipare gli studenti dell'Accademia interessati a lanciarsi in quest'avventura. Così, stimolato dalla curiosità ho risposto al suo invito insieme ad una decina di studenti. Ogni sera, quando i corsi dell'Accademia erano chiusi, ci ritrovavamo sulla pedana della classe di Mr. Rubac per provare e divertirci insieme. Un anno dopo, la pedana era diventata un palco e la classe un vero teatro con un pubblico da affrontare. Nel momento della rappresentazione, immerso nell'emozione palpitante del mio personaggio, nel grido disperato che egli doveva urlare in scena : «Ah! les salauds... » («Ah! i mascalzoni... »), ho sentito uno strano piacere, una sorta d'ubriachezza fisica che mi ha colpito dall'interno e con essa, la voglia del suo rinnovo. A mia insaputa il teatro mi aveva morso e aveva seminato in me il desiderio di proseguire l'esperienza. Ma sentivo, già, anche se confusamente, che il teatro di prosa pseudo-realistico, il teatro di testo non rispondeva alle mie aspirazioni. L'attenzione alla sola recitazione del testo mi sembrava troppo riduttiva di fronte all'emozione interiore che invadeva la totalità della presenza fisica in scena. Intuivo che le parole dovevano radicarsi più profondamente nel tessuto corporeo. Questo distacco tra il parlare e l'agire mi ha portato a cercare le vie della loro unione.

Parallelamente avevo coltivato da anni, prima ancora della mia passione per la musica e il teatro, un gusto per l'arte poetica. Come tanti adolescenti ho scritto in segreto delle poesie. Arthur Rimbaud, Lautréamont, il simbolismo, il surrealismo e soprattutto il dadaismo di Tristan Tzara mi avevano davvero colpito. La poesia si presentava allora come il punto d'appoggio più immediato per provare a sperimentare uno spettacolo in grado di unificare il verbo al corpo, rompendo, però, i limiti del realismo psicologico legato al teatro di prosa.

Ho allora concepito un montaggio basato su delle poesie di Arthur Rimbaud, Tristan Tzara e Saint-John Perse inerenti ad un tema centrale presentato in un prologo con questa citazione di Perse: «Car c'est de l'homme qu'il s'agit et d'un agrandissement de son oeil intérieur» («Poiché è dell'uomo che si tratta e di un ingrandimento del suo occhio interno»). L'insieme delle poesie doveva essere recitato a quattro voci (solisti e a cappella) su una base musicale creata a partire dall'opera Les corps glorieux per organo d'Olivier Messiaen.

Il progetto era ambizioso, ma mi mancavano i mezzi e in particolare il modo di collegare la voce recitante al movimento corporeo. Ho chiesto consiglio a Mr. Rubac che mi ha indirizzato verso la scuola d'Etienne Decroux al fine di acquisire i rudimenti dell'espressione corporea. Non avevo mai sentito parlare di questa scuola fino ad allora. E senza pensarci troppo mi sono presentato. Lo stesso Etienne Decroux mi aprì la porta. Mi sono iscritto nella sua cucina. Mi sono cambiato nella sua soffitta insieme ad altri studenti. Ho sceso le scale della sua cantina dove si trovava il suo studio e mi sono messo in un angolo. Ho iniziato ad eseguire gli esercizi in silenzio, a scoprire che avevo un collo sotto la testa, un busto, una cintura, un bacino, delle gambe, dei piedi appoggiati a terra, delle braccia sospese nell'aria, delle mani con cinque dita, degli occhi in grado di orbitare e un corpo totalmente ignorato dalla mia mente. Man mano che i giorni si succedevano, in questa cantina, mi sono reso conto che i rudimenti dell'espressione corporea da acquisire non esistevano, che tutto era da scoprire e che questa scoperta esigeva un'assidua pratica di molti anni. Ho allora capito che dovevo chiudere il progetto del mio spettacolo poetico per dedicarmi con umiltà alla sola conoscenza di questo strumento favoloso: il corpo attraversato dalla mente, la mente attraversata dal corpo. I giorni diventavano sempre più stretti per fare coabitare con lo stesso rigore lo studio musicale e quello del Mimo corporeo. Il mio violoncello si ribellava a questa seconda passione con degli stridori sempre più pronunciati. Chiedeva, giustamente, l'esclusiva della mia attenzione. Né la musica né il teatro si possono praticare a metà. La scelta era, dunque, inevitabile. Scegliere fu difficile e doloroso. Guidato dalle parole di Bertold Brecht: «Il teatro è un uomo che parla ad un altro uomo», ho scelto il teatro per la sua umanità. Ho richiuso il mio violoncello nella sua custodia e l'ho riportato al mio professore di musica con sofferenza. Volevo dare un taglio netto. Ogni scelta è crudele e conserva nel profondo delle sue pieghe la persistenza del dubbio. Tuttora rimane la nostalgia per questo amore sacrificato e, ogni tanto, quando vedo la mediocrità della realtà teatrale che mi circonda, mi viene il rimorso. Ma non si può tornare indietro.

Yves Lebreton
Yves Lebreton

 

Qual è stata la caratteristica della personalità di Decruox che l'ha maggiormente colpita?

Sicuramente, il suo senso dell'assoluto. Decroux non accettava nessun compromesso. Esigeva tutto e subito. Non accettava la facilità, il movimento eseguito a metà, la sbavatura, la mancanza di rigore. «Dobbiamo soffrire per essere belli... Vendo unicamente cose care» amava dire. Spingeva sempre il corpo al limite del suo possibile, non necessariamente nella sua bravura ginnica, ma nella sua esigenza interiore. Mi ricordo la sua indicazione spesso ripetuta durante le sue lezioni: «Non dobbiamo fare dell’ordinario con dello straordinario, ma dello straordinario con dell’ordinario». Cercava la verità dell'atto. Non la verità stanislavskiana in chiave psicologica rispetto ad un personaggio inserito in una situazione, ma la verità del corpo nel suo confronto con l'esigenza del movimento da compiere, sia a livello del suo disegno nello spazio, che a livello dinamico e ritmico nel tempo. Questo confronto doveva essere totale e nutrito dalla mente attraverso immagini e sensazioni. Solamente attraverso il rispetto della sua integrità, lo studente poteva raggiungere l'autenticità indispensabile al risveglio del respiro interiore al movimento. Il rigore si mutava allora in etica di lavoro.

Questo fascino per l'alchimia del movimento ha portato Decroux a considerare lo studio del corpo più importante che il suo utilizzo, l'arte del movimento era più importante che il movimento dell’arte. Benché Decroux abbia realizzato, all'inizio, delle tournée anche internazionali con i suoi spettacoli, in seguito ha capito che il mercato teatrale era un pericolo per la sua ricerca fondamentale. Allora ha girato le spalle alla commercializzazione dei suoi spettacoli senza però rinunciare alla creazione. Decroux, infatti, creava con i suoi studenti. Non spettacoli capaci di rispondere alle esigenze del commercio teatrale, ma pièces da cinque o dieci minuti sulle quali lavorava mesi o anni e che venivano presentati nella sua cantina per gli allievi della sua scuola e un cerchio ristretto di intimi. Se ne fregava delle conferenze stampa, dei giornalisti, impresari, direttori di teatri o dei festival. Sicuramente, però, avrebbe apprezzato la possibilità di presentare le sue opere in teatro davanti ad un vero pubblico, ma per ottenere ciò non era disposto a pagare il prezzo di un compromesso con il commercio teatrale e nemmeno voleva perdere il suo tempo contrattando con dei gestori culturali ignari della sua arte. Per questo preferiva creare nella sua cantina di soli quaranta metri quadrati, su un pavimento di linoleum blu e con due riflettori accesi su una semplice tenda bianca stesa in fondo alla sala.

Certamente nel corso degli anni Decroux aveva costruito una tecnica del movimento con degli esercizi precisi e progressivi, ma la sua scuola non era un accademia dove si studiava un metodo immutabile, al contrario, era un laboratorio, un campo di sperimentazione. Ha preferito agire nell'ombra della scena che sotto le luce dei riflettori. Per questo motivo il gran pubblico, i mass-media e le istituzioni l'hanno sempre ignorato mentre era in vita. Adesso che è morto la comunità teatrale inizia a realizzare l'importanza del suo lavoro. Come al solito! L'assenza di spettacolarità dell'opera di Decroux viene spesso considerata, da alcuni, come una debolezza della sua arte. Al contrario, io la considero il suo punto di forza, come l'espressione della sua purezza artistica.

Decruox ha affermato: «Ma possiamo mescolare il mimo e la parola? Si, quando tutte e due sono poveri, giacché in tal caso l'uno completa l’altro. Ma uno dei due può mostrarsi riccamente? Si, nella misura in cui il secondo si mostra poveramente». Detto altrimenti: Quando due arti si producono insieme, l'una deve indietreggiare se l'altra avanza e viceversa. «Inoltre il mimo» pensavo, ha di meglio da fare che completare un'altra arte». Lei condivide questa supremazia del gesto sulla parola?

Nella lenta evoluzione dell'umanità il linguaggio parlato è apparso tardivamente. L'uso della parola non è un dono del cielo, ma il risultato di una progressiva trasformazione dell'uomo nella sua interazione con l'universo. Possiamo supporre che l'uomo arcaico si esprimesse soprattutto attraverso il suo corpo, per mezzo di gesti arricchiti da pulsioni vocali, più tardi per mezzo di grida sempre più articolate in fonemi strutturati tra di loro e progressivamente, tutto ciò ha portato alla nascita del linguaggio parlato.

Più che primitiva, però, l'espressione del corpo è primaria. Infatti il corpo è la sede del nostro pensiero: prima di parlare, pensiamo o sentiamo con il nostro corpo. Tutto lo attraversa e tutti i linguaggi dell'uomo gli sono tributari. Il pittore, lo scrittore, lo scultore, il musicista producono la loro arte tramite la presenza del loro corpo. Il corpo è la sorgente di tutti i linguaggi. Senza corpo l'essere umano perderebbe la propria identità e ciò lo condurrebbe alla morte. Siamo vivi proprio perché la nostra coscienza è incarnata nel nostro corpo come il nostro corpo incarna la nostra coscienza. Nessuno può esistere al di fuori del suo corpo. Ma se la parole hanno bisogno del supporto corporeo per essere espresse, il corpo non ha bisogno della parole per essere espressivo. Il corpo è ovviamente primario sulla parola e la sua supremazia è un dato di fatto.

Yves Lebreton a colloqui con alcuni allievi
Yves Lebreton a colloquio con alcuni allievi


Nel 1969 Decroux la espulse dalla sua scuola a causa della sua decisione di compiere un'esperienza con Grotowski. Che cosa l'ha spinto verso l'attività di Grotowski?
Avevo sentito dire che Grotowski poneva l'arte dell’attore al centro dell'evento teatrale con un ritorno decisivo verso la sua realtà corporea. Queste due premesse erano in totale sintonia con le idee di Etienne Decroux sul teatro. Basta leggere il suo articolo «La mia definizione del teatro» per verificare che Decroux prefigurava già in 1931 la concezione del Teatro povero di Grotowski. Nel suo libro, Decroux scrive testualmente questo paradosso: «Più un arte è povera, più è ricca». Visto la convergenza tra Decroux e Grotowski su questi punti, il mio interesse per la ricerca di quest'ultimo era dunque naturale.

Quando Decroux fu informato dalla mia intenzione di andare a Wroclaw per studiare con Grotowski, effettivamente mi espulse dalla sua scuola. La sua decisione era in perfetta concordanza con i principi della sua etica. Si sapeva che per potere seguire le lezioni di Decroux, gli allievi dovevano conformarsi a due regole semplici: non prodursi in spettacoli e non seguire altri corsi teatrali. Il rispetto di queste regole non è mai stato richiesto in maniera esplicita, ma si sapeva che Decroux voleva preservare i suoi allievi da esperienze esterne. Non sono mai stati, però, applicati in maniera rigida. Durante la mia presenza nella sua scuola, Decroux ha saputo, per esempio, che uno dei suoi allievi lavorava come attore nella compagnia di Ariane Mnouchkine, ma ciò non ha creato nessuna rottura. Se, invece, veniva a conoscenza del fatto che qualcuno studiava anche con Marceau o Lecoq, l'espulsione era molto più probabile. L'allievo doveva scegliere la sua direzione artistica e Decroux non voleva perdere tempo a lavorare con una persona che non era del tutto convinta dello studio nella sua scuola. Tutto questo era coerente e giustificato.

Decroux non mi ha mai spiegato i motivi della mia espulsione. Dopo più di quattro anni di studi l'espulsione fu traumatica e dolorosa, ma anche benefica perché consideravo maturo il tempo di lasciare la scuola. In realtà avrei desiderato studiare ancora un anno, ma non sapevo se avrei resistito ai due anni supplementari. Ero conscio che per attraversare tutta la tecnica di Decroux, erano necessari circa sei anni. Ma la potenza di Decroux iniziava a pesarmi, sentivo sempre di più la necessità di respirare altrove per rigenerarmi. L'esperienza con Grotowski era concepita in questa direzione. Ho chiesto una borsa di studio alle autorità francesi per potere andare in Polonia per tre mesi. La borsa di studio non fu accettata e mi sono ritrovato finalmente libero.

Più tardi, quando mi sono avvicinato alla pratica del training grotowskiano, ho realizzato che il rifiuto da parte delle autorità francesi mi aveva infatti salvato da un pericolo: la confusione. Se Decroux e Grotowski sono convergenti su alcuni aspetti sono totalmente divergenti nella maniera di affrontare la pratica dell'attore e anche nello spirito. Decroux ha sempre rivendicato l'importanza della tecnica, dello studio rigoroso del movimento corporeo ponendo il corpo come una realtà oggettiva che l'attore doveva affrontare, scoprire e addomesticare prima di attingere alla sua libertà espressiva soggettiva. Chiedeva all'attore un comportamento simile ad un musicista di fronte al suo strumento con la differenza che per l'attore lo strumento è la sua propria identità. Inoltre, Decroux ha sempre elaborato la sua tecnica a partire della sola osservazione del corpo in movimento senza appoggiarsi o utilizzare altre tecniche corporee estranee alla sua visione. Per Grotowski invece, la tecnica non era che un pretesto per canalizzare la soggettività dell'attore, metterla alla prova, snodarla dai suoi blocchi psicofisici e provocare il sorpasso di se stesso verso la verità dell'atto: la tecnica o la conoscenza dello strumento attoriale in sé e per sé non esisteva. Ogni movimento del suo "physical training" doveva, appena acquisito, essere trasformato attraverso dei cambiamenti motivazionali, riportando la realtà oggettiva del movimento a quella soggettiva dell'attore. Grotowski si è spinto fino a mettere in discussione l'importanza stessa del training o almeno di un training strutturato come passaggio obbligato, per intravedere un training personale e individuale per ciascun attore, l'oggettività dell'attore diveniva allora totalmente immersa e dipendente dalla sua soggettività. L'unica esigenza oggettiva rimaneva la precisione e la consapevolezza nell'agire. In più, il suo physical training, come presentato nel suo libro "Per un teatro povero", era un amalgama di diversi esercizi proveniente dal lontano Delsartre, dalla biomeccanica di Meyerhold, dallo Yoga, dal Katakali e dall'acrobazia circense.

L'approccio fisico dell'attore che proponeva era totalmente opposto a quello di Decroux. Questo antagonismo mi avrebbe sicuramente portato alla confusione più totale o, più verosimilmente, al rifiuto della via Grotowskiana perché ero già troppo convinto dello sguardo oggettivo di Decroux sull'arte dell'attore.

Quanto alla loro differenza di spirito, la semplice riflessione di Decroux a proposito d'Antonin Artaud la puoi chiarire: «Artaud è un uomo della notte, io sono un uomo del giorno». Grotowski appartiene, come Artaud, alla notte. Non c'è nessun giudizio di prevaricazione in questa differenza, solamente la constatazione di un differenza d'appartenenza:il genio delle tenebre esiste come il genio della chiarezza. Vivaldi appartiene alla chiarezza, Beethoven all'oscurità. Ho sempre avuto un solo Maestro e l'unicità della sua luce mi ha permesso di costruire progressivamente la mia.

Al di fuori di Decroux non ha mai sentito l'influenza di altri Maestri?

Si, naturalmente. Uso, però, il termine di Maestro in un senso ben specifico. Per prima cosa un Maestro è una persona che si sceglie; secondo, è una persona con la quale si intraprende un lungo percorso pratico; terzo, egli è il punto di partenza della propria traiettoria personale. In quest'ottica Decroux è il mio unico Maestro. Ovviamente lungo questa traiettoria o all'interno di essa si aprono delle finestre che guardano altri mondi: ad esempio il pittore Wassily Kandinskij con il suo libro "Spiritualità nell’arte" è uno di essi, nello stesso modo anche Adolphe Appia, Constantin Stanislavski, Charlie Chaplin, Buster Keaton, Samuel Beckett o J.S.Bach ecc. Ma seguendo quest’ottica si possono trovare Maestri dappertutto. Sono molto diffidente nei confronti dei "les Maîtres à penser" (i maestri da pensare) perché non fanno che rinforzare l'incapacità dell'essere umano ad assumersi. Troppo spesso ci si nasconde dietro un Maestro sperando di trovare se stessi sotto la sua guida, ma, in realtà non si fa che perdersi nelle mani altrui.

Il Maestro è, invece colui che ti permette di diventare il Maestro di te stesso. Non posso dire che Decroux mi abbia aiutato molto in questo. Ho dovuto lottare tanto per liberarmi della sua impronta, ma gli sono riconoscente di avermi aperto la via della sua purezza: il suo giorno ha fatto luce in me.

Il vero Maestro è contemporaneamente dentro e fuori di te, nello spazio che ti abita e nell'universo che ti circonda, nella vita che batte, scintilla, illumina, ma che spesso non sappiamo ascoltare.

Lo scultore Antoine Bourdelle ha detto un giorno: «Tutto è bello per chi sa vedere». Tutto parla per chi sa ascoltare.

Che tipo di attività svolgeva con la compagnia teatrale di Parigi: faceva spettacoli, laboratori..?

Facevo spettacoli come tutte le compagnie, si produce uno spettacolo, poi si porta in giro.

Una lezione
Yves Lebreton durante una lezione
 

Lavorava già sul corpo energetico?
Ho cominciato subito a lavorare sul corpo energetico. Le prime esperienze che ho fatto dopo la scuola di Decroux erano già orientate in questa direzione, ma la visione del corpo energetico, a quel tempo, non era assolutamente chiara. Era la prima spinta, e la prima spinta è un po' come l’esercizio del delirio della quale vi ho parlato nel pomeriggio. Il lavoro in questa prima fase consisteva, come nel delirio, nel "viaggiare" con i propri fantasmi. Si lavorava a terra, protetti da dei materassi per le cadute, si trattava di esplodere in tutte le direzioni, per questo c'era il tappeto che ti sosteneva e ti permetteva di scatenarti. Era unicamente un'esplosione, nessun lavoro mentale, era tutto basato solo sull'istinto, sulla spontaneità, sul riflesso. Non si doveva pensare, e non si doveva pensare al movimento, ma esplodere, esplodere il più veloce possibile, in modo da non prendere coscienza del movimento stesso. E poi, con il tempo, questo lavoro ha portato la necessità di ricercare altri elementi.

La nascita di una compagnia o di un centro danno poco tempo alla ricerca... e un pittore che non dipinge... Tutto quello che comporta una compagnia sacrifica la ricerca, il lavoro sopra la propria Arte. Il centro avrebbe potuto bilanciare, si sarebbe potuto andare in tourné e nello stesso tempo avere un centro, una base, dove si sarebbe potuto continuare l’attività di ricerca e di esplorazione della tecnica.

Perché proprio Firenze?

È stata una scelta esistenziale. Comunque l'Italia è un bel paese e il pubblico italiano è favoloso. Ogni tanto mi stanco del pubblico italiano e dell'Italia, però appena torno in Francia per fare spettacolo, sono contentissimo di ritornare in Italia. Il pubblico, qui, è molto più "aperto mentalmente" rispetto a quello francese che vuole assolutamente capire, capire, e che non riuscendo a capire si annoia. Invece il pubblico Italiano è disposto a giocare, a prendere la pallina al volo, si lascia prendere dal divertimento. Solo alla fine cerca i simboli e le altre cose nascoste. Ma prima di tutto si lascia coinvolgere!

L'attività di pedagogo e di fondatore di una sua scuola è tra i suoi progetti futuri?

Mi vuoi fare un'offerta! Sarebbe una bella scelta, ogni tanto ci penso. Ma fondatore.. per carità! Sto assecondando un interesse: privilegiare la ricerca e l'insegnamento rispetto alla fondazione di una scuola. E poi, sinceramente, credo che non funzionerebbe più rispetto al contesto culturale teatrale così degradato. Tutto crolla, il pubblico degli spettacoli diventa più superficiale… forse se cambiasse il paese, se si facesse la rivoluzione… ma per il momento è così, speriamo che passi perché in Italia c'è davvero un bel pubblico. Fino a poco tempo fa era un paese molto vivace culturalmente, adesso lo stesso pubblico è diventato, purtroppo, imbecille, perché è abituato agli scherzi e alle gag della televisione. Va a teatro e si aspetta le stesse cose e quando tu gli proponi una certa "poesia" sembra che non capisca più nulla, o che capisca con cinque minuti di ritardo. Invece venti anni fa entrava nella poetica senza problemi. Tutto questo è molto grave...  

Quindi mi dedico all'insegnamento nei laboratori e alla ricerca, perché ritirarmi ad insegnare in una scuola, credo sarebbe rischioso. È molto pericoloso imprigionare il movimento e l'arte è movimento. Quando fondi una scuola, alla fine diventa un'accademia, nasce l'istituzione, e da questa si creano dei filoni… e c'è chi ha capito,e chi non ha capito. Alcune volte è meglio lasciare le cose così come stanno.




 
 

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