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La terra trema...

di Marco Luceri
  La terra
Data di pubblicazione su web 02/03/2006  

Il nuovo film di Sergio Rubini sembra recuperare in pieno temi, motivi e paesaggi comuni a gran parte della filmografia dell’attore e regista pugliese; La terra infatti è un film ambientato in una città del brindisino, Mesagne (anche se gran parte delle riprese sono state effettuate a Nardò, nel Salento), a testimonianza di come la Puglia ormai da circa dieci anni sia, insieme alla Sardegna e alla Sicilia (quella raccontata da Huillet e Straub, da Ciprì e Maresco, dalla Torre e da Crialese), la regione italiana più fertile e vitale per il nostro cinema (e non solo). Basti infatti pensare alla trilogia del regista salentino Edoardo Winspeare (Pizzicata, Sangue vivo, Il miracolo) o ai film di Alessandro Piva (LaCapaGira ad esempio) e alle innumerevoli produzioni di cortometraggi e documentari spesso premiati nei festival nazionali e internazionali. Il cinema di Rubini rientra in gran parte, seppur con le sue peculiarità, in questa sorta di vague pugliese, anche se è sempre mancato al regista barese la profondità autoriale di Winspeare e la freschezza realistica di Piva. Il fatto anche che Rubini abbia costruito il suo percorso registico dopo aver intrapreso con successo la carriera di attore nella capitale, lo ha portato, a differenza dei due sopra citati, solo in un secondo tempo a volgersi verso la propria terra natale come a un punto di riferimento per un nuovo percorso artistico.

Questo muoversi continuamente, si potrebbe dire, tra Roma e la Puglia, ha permesso però a Rubini di mettere in piedi nella regione produzioni impegnative, riuscendo ad annoverare nel cast de La terra ad esempio, alcuni tra gli attori più importanti del cinema italiano, come Fabrizio Bentivoglio, Claudia Gerini e la giovane promessa Paolo Briguglia. Il film ha potuto contare inoltre sull’impegno produttivo dell’onnipresente Fandango di Domenico Procacci, a sottolineare il fatto che l’incontro di diverse sinergie (regista, attori, produttore) ha prodotto ne La terra un felice connubio.


La narrazione si muove su tre diversi piani, intrecciando il ritratto famigliare, la commedia sociale e il giallo: Luigi Di Santo (Bentivoglio) è un maturo professore di filosofia di origine pugliese che insegna a Milano, dove si è trasferito tanti anni prima a causa del pessimo rapporto con il padre Luigi e i suoi fratelli; Michele (Emilio Solfrizzi) e Mario (Briguglia), vorrebbero vendere una vecchia azienda agricola di famiglia che versa in uno stato di semi abbandono, ma il loro progetto è fortemente ostacolato dal fratellastro Aldo (Massimo Venturiello), un uomo violento e donnaiolo come papà Di Santo. Per raggiungere lo scopo, Luigi decide di tornare al suo paese natale, ma ben presto gli antichi rancori e le vecchie ferite riemergono più vivi che mai. Le cose degenerano quando i quattro fratelli si trovano invischiati nell’omicidio di Tonino, un potente strozzino del posto (interpretato dallo stesso Rubini), di cui ognuno incolpa l'altro, tanto che i carabinieri alla fine arrestano uno di loro. Luigi prende in mano la situazione e inizia a indagare per conto suo, ma le ricerche lo portano ad esaminare non solo il suo passato e i relativi segreti di famiglia, ma anche il suo presente e il rapporto con sua moglie Laura (Gerini).

La terra è dunque un film complesso, che sviluppa a livello drammaturgico più storie, con un solo centro: la figura di Luigi e il suo tentativo di tenere la famiglia unita. E’ chiaro dunque che il film, almeno nella prima parte, proceda all’illustrazione e allo svelamento delle diverse storie e dei diversi caratteri dei personaggi: Michele è un imprenditore immobiliare, che si candida alle elezioni provinciali per un partito di destra, ma in realtà è uno sprovveduto, un grottesco piccolo-borghese che non esita a contrarre debiti e a chiedere soldi in prestito al serafico Tonino, goffo, ma temibile strozzino dai modi rudi e sbrigativi. Aldo è invece un irrequieto campagnolo che vive solitario nella vecchia e fatiscente masseria della famiglia, intento a insidiare l’amante di Tonino, una giovane e avvenente ragazza rumena, Tania, con cui ha una storia clandestina. Mario è tra i fratelli quello più mite: passa gran parte del suo tempo in parrocchia, accanto agli handicappati e ai meno fortunati, tanto da trascurare le voglie della sua tempestosa ragazza, Angela. Ciò che sembra accomunare i fratelli Di Santo, così diversi tra loro, sembra però essere una sorta di egoismo interiore, per cui ognuno tende a chiudersi in un suo mondo privato, teso alla sola soddisfazione dei propri interessi, senza tener conto dei legami di sangue, e del destino comune che invece necessariamente li lega.



Luigi è il trait d’union tra queste diverse vite; scaraventato quasi a forza da Milano a Mesagne, vestiti gli scomodi e poco graditi panni del paciere tra i diversi interessi dei fratelli, è un personaggio che si scopre pian piano: da un passato nebuloso di contrasti con il padre viene nel presente messo di fronte alla disgregazione dei suoi affetti, e tenta come può di porvi rimedio. Ciò che sembra andare in frantumi è il valore sacrale di uno dei grandi miti della cultura mediterranea, cioè quello della famiglia, per cui il bene di ognuno è garantito solo dal bene di tutti. In questo senso il razionale professore che viene dal nord compie un vero e proprio doloroso (ma necessario) recupero di queste ancestrali "responsabilità", che egli per primo, fuggendo nel passato, aveva tentato vanamente di esorcizzare. Il suo viaggio verso e dentro il Sud diventa allora una riscoperta del mito del sangue, della salvezza collettiva, della fraternità come valore fondativo.

Non è un caso infatti che l’odio tra fratelli sia sorto in seno alla vendita dell’antica proprietà della famiglia, la "terra" appunto, il locus amenus che esprime il sacrale senso di appartenenza a delle radici precise, alla famiglia intesa come armoniosa realizzazione al contempo collettiva e individuale. La vecchia masseria dimessa, che reca in se la tragedia legata allo scorrere inesorabile del tempo (e dunque all’allentarsi dei legami ancestrali), dove convivono i ruderi del barocco e gli attrezzi della modernità, è quella dove alla fine i quattro fratelli ritornano, ognuno con la sua storia, ma ormai stretti nell’abbraccio finale di un’antica storia così dolorosamente riconquistata.



Il senso del sacro pervade tutto il film, dagli splendidi paesaggi pietrosi e assolati (ripresi in lunghe panoramiche), alla cittadina, sospesa tra le violenze della modernità e il bianco fulgore della secolare pietra leccese, fino alla scena dell’omicidio, girata durante la tradizionale processione del Venerdì santo, in cui tutti gli abitanti indossano un costume per mettere in scena tra le vie del paese la Passione di Cristo. Tonino muore sotto la statua di Gesù morente, in quella che diventa una vera e propria sacra rappresentazione medievale. Il Sud ripropone con forza la mitologia della sua cultura cristiana della morte e della tragedia.

Il meccanismo del giallo (in cui si ritrovano sfumature comico-grottesche, ottenute soprattutto grazie alla recitazione degli attori, in particolare del sorprendente Solfrizzi) diventa perciò, nella seconda parte del film, solamente un pretesto per portare al limite questo tipo di frattura che percorre il rapporto tra i fratelli, e infatti il finale rivelerà sostanzialmente quanto meschine e fittizie fossero le motivazioni di tale rottura. Il "sacrificio" di uno di loro per il bene comune consente il recupero di uno status famigliare che va oltre la soddisfazione dei singoli bisogni. Si ritorna cioè, magistralmente, a quel forte senso di comunanza, di appartenza alla sacralità di un mito, quello della Terra, che nel bene e ne male, risolve i drammi e le miserie della contemporaneità. Ed è in questo che La terra, seppur nei suoi limiti, si riconcilia con una grande tradizione del cinema italiano, quella del grande ritratto famigliare, che ha in Rocco e i suoi fratelli (1960) di Visconti il più illustre, e tuttora insuperato, precedente.

 



La terra
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Sergio Rubini
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