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Monsieur Verdoux punto e a capo

di Marco Luceri
  Il cacciatore di teste
Data di pubblicazione su web 11/02/2006  

Il nuovo film di Constantin Costa-Gavras si inserisce a pieno tra i migliori titoli della filmografia del regista, che in tanti anni di onorata carriera non ha mai smesso di proporre il suo cinema come caleidoscopico strumento di osservazione sulla contemporaneità e i suoi angosciosi problemi. Scandagliando spesso con acuta sagacia i mali della società occidentale, Costa-Gavras ha portato sullo schermo sempre storie di uomini e donne persi nella morsa stringente di strutture sociali, economiche, politiche, religiose, culturali e mass-mediologiche che ne condizionano disperatamente l’esistenza, presentando allo spettatore il ritratto di una piccola umanità alla deriva, pesantemente condizionata da forze orientate spesso verso la sua distruzione.

Potremmo forse dire che il cinema di Costa-Gavras è a metà strada tra il forte realismo sociale di Ken Loach e Robert Guédigain e la visionarietà oscura di Abel Ferrara, anche se rispetto ai suoi colleghi il regista di origine greca non ha mai cercato di dissimulare una certa tendenza al tono grottesco e parodistico nella costruzione narrativa e ideale delle sue opere.



Il cacciatore di teste rientra dunque in questo percorso artistico e politico, calato perfettamente nei problemi legati alla perdita del lavoro. Se la tradizione cinematografica ha posto quasi sempre la questione in termini di classe, privilegiando come oggetto della narrazione gli strati sociali meno abbienti, in particolare gli operai, in questo film la prospettiva si capovolge: ad essere licenziato è un ricco, capace e promettente manager, che per questo decide di vendicarsi, diventando uno spietato e cinico serial-killer.

Viene in mente un vecchio capolavoro di Chaplin, Monsieur Verdoux (1953), in cui un bancario francese disoccupato sposa e uccide ricche signore sole, di cui eredita i beni per mantenere la sua famiglia. Il nostro novello Verdoux si chiama Bruno Davert (Josè Garcia), ed è una figura sociale purtroppo diventata tristemente diffusa nell’Europa in cui viviamo. Il film rende esplicite in maniera perfetta le piaghe dell’odierno mondo del lavoro: il capitalismo sfrenato che il modello economico neo-liberista ha prodotto dopo la caduta del Muro di Berlino, con il trionfo della globalizzazione selvaggia, in cui il fine ultimo della società sembra essere il denaro e la mercificazione di ogni manifestazione della vita umana, ha profondamente cambiato il modo di intendere il lavoro, declassando i diritti in una bieca precarizzazione. Dietro parole come "ristrutturazione aziendale", "rilancio economico", "maggiore flessibilità" e quant’altro, si nasconde la più miserevole volontà di equiparare il lavoratore ad una merce da sfruttare e di cui disfarsi a piacimento, non essendo egli più tutelato perché precario.



Questa sorta di "pauroso mondo moderno" (scomodando le parole di Pasolini, e cioè di chi già più di trent’anni fa aveva tristemente previsto l’avvento di questa società) è lo spazio in cui si muove e compie i suoi omicidi Bruno. Le vittime, e questo non è certo un dettaglio da poco, sono tutte persone che versano nella stessa condizione del protagonista, anch’essi manager licenziati e in cerca di lavoro: hanno lo stesso curriculum del nostro buon padre di famiglia, le stesse aspettative, lo stesso stile di vita, vanno agli stessi colloqui, ma sono in troppi per i pochi posti disponibili. Essi diventano dunque agli occhi di Bruno molto più che avversari: sono dei nemici da abbattere, dei pericolosi esseri da cancellare perché insidiano le sue aspirazioni e rappresentano gli unici ostacoli alla riconquista del tanto sospirato posto di lavoro.

In un mondo in cui la coscienza di classe (intesa come analisi delle problematiche sociali cui offrire una soluzione di lotta collettiva) è andata in soffitta per sempre, questi ex-lavoratori si trasformano in dei veri e propri "mostri" pronti a scannarsi tra di loro, proprio perché quello che una volta era il "padronato" è diventato invisibile perché troppo grande, irraggiungibile perché globale, appunto. Il cacciatore di teste diventa allora una triste apologia della morale piccolo-piccolo borghese in cui la ferinità dell’uomo spinge all’omicidio seriale di chi ti sta accanto con i tuoi stessi problemi; il lavoro, ricercato e da dover ottenere a ogni costo (anche al prezzo di sopprimere tante vite umane), perde il suo valore nobilitante, diventando un mezzo che serve esclusivamente alla conservazione dei piccoli privilegi della quotidianità: il mantenimento della famiglia, l’automobile, il ristorante, i giochi dei ragazzi, le vacanze.



Costa-Gavras costruisce questo suo pamphlet politico giocando molto abilmente con i generi. Struttura la narrazione intorno a Bruno, un personaggio che da una parte appare come uno spietato e cinico serial killer, dall’altra come un arruffone sbadato e imbranato, che riesce ad eludere le indagini della polizia grazie a fortunosi eventi che lo scagionano sempre per conto di terzi. La fortuna, il caso (e qui le somiglianze del film con Match point di Woody Allen si fanno sempre più evidenti) riescono a salvare Bruno dalla giustizia, alimentando quel tono di black comedy che il film conserva dall’inizio alla fine. Non mancano inserti grotteschi, surreali, addirittura comici (su tutti le soggettive oniriche di Bruno durante il colloquio con il consulente matrimoniale), momenti irresistibili alla cui validità contribuisce l’ottima prova di Josè Garcia. Fingendo infatti abilmente di conservare un tono monotono, gioca sulle piccole variazioni la costruzione del suo personaggio, riuscendo a creare in lui uno sguardo allo stesso modo distaccato e partecipe agli eventi che travolgono la sua esistenza. Ogni movimento, ogni gesto, ogni variazione viene giostrata da Garcia sulla scena con una padronanza tecnica davvero notevole, tanto che spesso durante il film si ha l’impressione di essere di fronte ad una sorta di Isabelle Huppert in versione maschile.

In generale Il cacciatore di teste è anche un’ottima prova di regia da parte di Costa-Gavras, che insiste molto sul particolare della "serialità" come cifra stilistica, oltre che tematica, emergente nel film: le case del protagonista e delle vittime sono tutte uguali, come i costumi, le abitudini, i luoghi di lavoro (si pensi all’uso espressivo degli specchi fatti vedere nel film); il tono generale dell’opera allora assume un spiazzante grigiore, per concentrare l’attenzione dello spettatore proprio sulla meschinità e la piccolezza di questa povera umanità perduta. La nostra.



Il cacciatore di teste
cast cast & credits
 




 


 

Constantin Costa-Gavras
Constantin Costa-Gavras


 

 

 


 

 
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