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Gracias a la vida

di Francesco Fantauzzi
  Vita mia
Data di pubblicazione su web 04/02/2006  
E' innegabile che attorno ad ogni nuovo spettacolo di Emma Dante si crei una sorta di attesa. Ci si chiede se la regista siciliana dopo 'mPalermu e Carnezzeria può ancora esplorare il rapporto amore e odio nei confronti della sua identità, sviscerare nelle dinamiche familiari i dolori della terra del sud, i sogni e le disperazioni di chi in quella terra abita o di chi da quella terra fugge. Vita mia, presentato al Romaeuropa Festival nel 2004, giunge al Salone del CRT di Milano, teatro con cui Emma Dante ha avuto un rapporto fecondo già ai tempi di Carnezzeria (2002) e de La scimmia (2004). Vita mia è legato esplicitamente ai precedenti spettacoli (allo spettatore che sta per entrare in sala viene fatta vedere la registrazione di ‘mPalermu) e si può collocare come terza parte di una momentanea trilogia.

La scena si presenta nuda: un letto al centro – ma potrebbe essere un catafalco, un altare, luogo di morte o di vita – tre ragazzi, di cui uno che pedala vorticosamente una bici Graziella e una madre che presenta al pubblico i suoi figli. La situazione iniziale è di stasi, al pubblico sembra quasi di aver disturbato, con l'ingresso in sala, l'intima vita familiare dei quattro personaggi; tuttavia viene messo a proprio agio dalla madre e dai tre figli che cominciano raccontare di loro stessi al pubblico come se a loro volta avessero previsto la "visita" degli spettatori per dare un senso compiuto al loro dramma. La situazione d'attesa, come negli altri spettacoli di Emma Dante, diventa il propulsore drammatico per lo svolgersi della vicenda: il tentativo di una madre di ritardare il più possibile gli ultimi attimi di vita del figlio.


Vita mia
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La prima parte dello spettacolo scorre con un ritmo vivace, emergono note polemiche e ironiche sugli stereotipi familiari e sul rapporto genitori-figli. Nel descrivere una serie di aspettative per l'avvenire, strettamente legate ai luoghi comuni di una Sicilia (e un'Italia) disagiata, la Madre, interpretata da Ersilia Lombardo, insegna ai propri figli ad accontentarsi e a non cercare opportunità che non possono essere alla loro portata. Perché istruirsi? Meglio i mestieri umili: il panettiere, lo spazzino, il parcheggiatore abusivo. «Una madre guarda con occhi dolci e tristi i tre figli che ha di fronte e gli insegna che la vita è la cosa più preziosa, è qualcosa che fugge, passa», scrive la regista siciliana nel programma di sala. Investe le sue speranze sul più piccolo, Chicco. A lui raccomanda di studiare per diventare assessore. A quest'invito risponde sinceramente il figlio «E che c'è bisogno di studiare pi' diventare assessore?».

Lo spettacolo si configura subito come la preparazione ad un rito di passaggio, la repressione violenta del tentativo di andare oltre il limite, ovvero dell'atto disperato di prolungare il più possibile la permanenza in vita. Una madre dolce, amorevolmente possessiva, ripete più volte ai figli «sancu mio» e custodisce gelosamente le loro vite. Una madre che prepara, contro la sua stessa volontà ma con precisione e abnegazione,  il rito funebre per uno dei tre figli. Una madre che difende e insegna la vita proprio mentre si sta per compiere la tragedia, ma che non riesce appieno ad interagire con i figli, il cui atteggiamento è puerile, incosciente. Forse sarà proprio questo modo di vedere il mondo a risparmiare ai due figli che resteranno in vita la sofferenza dell'abbandono, della perdita. I figli babbìano, giocano, ricordano e raccontano girando attorno alla madre e a quel letto sta ancora attendendo qualcuno di loro. A chi toccherà assopirsi? «Chicco veni 'ca», l'ordine dolce e severo. L'attenzione materna, commovente e fastidiosa, diventa una liturgia nella vestizione del più piccolo dei figli. Lei vuole vestirlo, non gli permette di farlo da solo, non riesce a lasciarlo. L'atmosfera è intensissima. La veste bianca, ricopre il corpo di Chicco che si sdraia sul letto, immobile. E' morto. I fratelli e la madre lo guardano: «Talìa si muove!» Pian piano il suo corpo comincia a saltare nel letto e attorno gli altri corrono e ballano sulle note del Sirtaki. Sembra una resurrezione, ma il corpo di Chicco ritorna inerte e la madre si unisce al lui. «Cummigghiateci», "copriteci" chiede agli altri figli.

Nello spettacolo si passa da momenti di profonda drammaticità ad attimi di luminosi sorrisi, l'atmosfera vede dominare tre colori, il nero, il rosso e il bianco che si alternano senza mescolarsi.  Si raggiungono momenti di intensa partecipazione. Le lacrime scendono. La corporeità dei bravi attori fa uscire nel gioco e nel contatto fisico degli abbracci, dei baci, nei movimenti ingenui, negli accenti del cunto, la forma drammaturgica di Emma Dante. Le parole, di un palermitano carnale, trovano riverbero nei lunghi silenzi, quadri caravaggeschi dove luci e ombre sfiorano i corpi con perfezione. La partitura non ha nulla di superfluo, ogni minimo gesto, oggetto, suono, è significante non nella dimostrazione di una teoria, ma nella creazione di  continui contatti tra gli stereotipi della vita reale e le sue possibilità e contraddizioni. Il crocifisso di legno, sempre presente sulla scena, è materia, non rimanda ad altro. Il gesto innocente e ingenuo di usare l'oggetto sacro per appendervi la maschera di Zorro ricrea un contatto primordiale col Dio. Il blasfemo, dunque, non offende ma ristabilisce una relazione.

Vita mia, sangue mio. Così in Sicilia le madri chiamano i propri figli. Il possesso e il dono non si distinguono. Così come il passato e il futuro sembrano coesistere in un tempo e in uno spazio svincolato dalla realtà. Possedere una vita è anche sapere di perderla. L'attesa della "fine" è, nello spettacolo di Emma Dante, un disperato attaccamento al passato, uno spasmodico ultimo respiro, un meraviglioso inno alla vita.


 




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