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Il coraggio dell'assunto e le regole
di un genere


di Sara Mamone
  Munich
Data di pubblicazione su web 31/01/2006  
Peccato. Se bastassero le intenzioni ci troveremmo qui a scrivere del film più importante dell’anno. Invece Munich girato da Steven Spielberg dopo molti anni di passione tenace e di riflessione sul libro di Georges Jonas Vendetta non è un film riuscito. Anzi è un film che resta molto al di qua delle, nobili e smisurate, ambizioni del regista. Che erano e sono quelle di un’opera in cui il film sia mezzo di una più universale presa di coscienza, veicolo di dibattito, di conoscenza, di riflessione. Insomma Spielberg sperava, addirittura restando nel genere meno riflessivo che ci sia, cioè il film d’azione, addirittura nella declinazione del noir spy story, di arrivare a far riflettere sul tema cruciale della vendetta. Tema che il cinema affronta in questi mesi in varie pellicole, certo più intimiste e soggettive, ma che qui viene invece posto nel terribile esempio dell’azione di ritorsione che il Mossad (allora efficientissimo servizio segreto israeliano) iniziò nel 1972 contro i terroristi responsabili (o presunti tali) dell’atroce azione, compiuta a Monaco durante i giochi Olimpici, di sequestro e uccisione di dodici componenti la squadra olimpica di Israele. Compiuta dalla formazione terroristica di Settembre nero, con qualche legame mai ben dimostrato con i terroristi locali della RAF capeggiata da Andreas Baader e Ulrike Meinhof, l’azione fu certamente (e resta) una delle pagine più terribili della storia di Israele e del mondo uscito dalla seconda guerra mondiale. Con i giochi olimpici i terroristi avevano trovato la cassa di risonanza di un’udienza planetaria, il luogo più angoscioso (una Germania che non aveva ancora regolato molti dei conti con il suo terribile passato antisemita), avevano sconvolto le regole di pace (o quanto meno di sospensione dei conflitti) da sempre sottoscritte per i giochi olimpici. E avevano colpito brutalmente. Del tutto impreparati i corpi speciali della nazione ospitante avevano largamente contribuito all’esito tragico della vicenda in aeroporto dove gli ostaggi erano stati trasportati in attesa del richiesto imbarco insieme ai terroristi. Il mondo era rimasto agghiacciato davanti ai televisori che trasmettevano la notizia: “Sono tutti morti” e Israele aveva deciso che non avrebbe più subìto. Queste decisioni portarono alle conseguenti immediate azioni di rappresaglia contro i paesi che ospitavano i gruppi terroristici (Siria e Libano) e a una più lunga e mirata vendetta contro le persone responsabili dell’ideazione e della realizzazione del misfatto. Della sistematica eliminazione di questi terroristi tratta il film e lo fa con il supporto delle memorie del capo del piccolo gruppo che il Mossad aveva lanciato in questa applicazione della legge del taglione. “Occhio per occhio dente per dente”.

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Ma è giusto, è morale tutto ciò e, soprattutto, è politicamente proficuo? Uno Sharon nel letto di un ospedale e la recentissima vittoria di Hamas nelle elezioni palestinesi porterebbero ancora più in là la posta del dibattito. Ma già prima di questa accelerazione tumultuosa il problema posto da Spielberg, l’ebreo Spielberg, sulla liceità e l’opportunità della vendetta, sia pure nella logica della difesa e della conservazione delle prerogative di una patria, appartiene ai grandi quesiti del nostro tempo. Che Spielberg lo abbia posto con coraggio da leone è un suo merito indiscusso, come merito indiscusso è che il battage intorno al film abbia dato al tema risonanze altrimenti impensabili. Attorno al film appunto, non sul o nel film.

Spielberg è un grande ma non può cambiare le leggi interne di un genere. E tra le leggi del film d’azione c’è quella della netta prevalenza del ritmo sull’enunciato (ammesso che questo non sia semplicemente nella dicotomia buono/cattivo, bianco/nero; vincente/perdente), l’immediatezza della percezione visiva rispetto al dipananrsi sofisticato e progressivo di una presa di coscienza. Il film procede così su piani paralleli destinati, per definizione, a non incontrarsi. Salvo nel grande prologo, dove l’alternanza della ricostruzione dell’assalto al villaggio olimpico e della riproposta di documenti televisi d’epoca rende magistralmente l’angoscia della situazione.

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Ancora qualche grande momento nella semplicità della ricostruzione del “consiglio di guerra” che, presieduto da Golda Meir nel suo modesto tinello, affida ad un giovane apparentemente né meglio né peggio di altri (Avner, nome di battaglia del protagonista che molti anni dopo racconterà nel libro la sua azione violenta e il progressivo allontanamento dalla missione e dalla patria per una scelta di vita normale e coniugale negli accoglienti States) il compito della rappresaglia. E poi è, come si dice, un altro film.

Un film di Spielberg, certo, girato da maestro, una storia di indagini, cassette di sicurezza, conti in banca, esplosivi più o meno ingegnosamente piazzati, individuazione di vittime, pedinamenti, spostamenti nei vari teatri di guerra, violente accensioni di conflitti a fuoco, sangue, urla, dolori, bellezze nude e sgozzate, etc. E lo spettatore non pensa più: se invece che essere pericolosi terrorisiti i nostri fossero pericolosi narcotrafficanti ben rifugiati nelle loro accoglienti dimore non cambierebbe poi tanto.

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A ricordarci che invece l’assunto è serio, ogni tanto i personaggi parlano attorno a un tavolo e, se stiamo attenti, riprendiamo il filo del discorso. Oppure, colpendoci a tradimento, e sono le parti più brutte del film, Spielberg ci ripete le scene dell’assalto al villaggio olimpico (che dio lo perdoni ce le passa davanti agli occhi pure quando il protagonista fa l’amore con la moglie ritrovata), appunto come promemoria. Insomma, il coraggio dell’assunto non trova la chiarezza della visione. Salvo in alcuni momenti, fra cui lo straordinario “riconoscimento” del gruppo del Mossad e di quello dei terroristi palestinesi; ospitati forse per errore nella stessa casa da clandestini; nel rosario ormai sgranato delle azioni punitive, gli uomini delle due formazioni si rispecchiano gli uni negli altri: per noi, e forse anche per loro, non pare esserci nessuna differenza.

E che sia andata proprio così, o non esattamente così, non ha, in questi rari momenti, alcuna importanza. Perché tutto diventa chiaro. Il problema della verità storica è invece importante in tutti gli altri momenti perché lo spettatore, per il rispetto che Spielberg merita, cerca di capire cosa sia vero e cosa no, quasi non fosse al cinema (che se ne frega del vero) ma in un dibattito. E forse è questo, per una volta, lo scopo vero del regista: far finta di fare un film facendo invece ben altro e cioè sollevando un grandioso problema storiografico. Che però, dopo aver visto il film, continua, nel migliore dei casi a restare posto come prima: gli ebrei integralisti infatti hanno accusato il regista di tradimento mentre tutti i consensi arrivano dalle file progressiste. Come dire, non si è spostato neanche un voto. Peccato. 


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cast cast & credits
 


PP
 Lynn Cohen (Golda Meir)


 



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Eric Bana (Avner)
 
 
 
 
 
 
 
 
 



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