Linvadenza della componente registica nei confronti degli altri elementi dello spettacolo dopera è una costante degli allestimenti contemporanei di cui bisogna prendere atto. Ciò è vero non solo per le riesumazioni dei melodrammi del ‘700 - ritenuti incapaci di presentarsi allascoltatore moderno se non imbellettati da continue gags di contorno al momento puramente canoro (motivate dallorror vacui del regista di turno) - ma anche per le opere ‘di repertorio. Il Barbiere di Siviglia rossiniano è parte del DNA di ciascun italiano e di ciascun giapponese, cionondimeno pare che ci si debba comunque scervellare per renderne attuale ed appetibile lallestimento ad un pubblico oramai ‘televisionizzato. Ecco allora che la geniale - ma sempre troppo ipertrofica - regia di Livermore sfrutta il nome del servitore di Almaviva (Fiorello) per dar vita ad un personaggio (sosia del noto showman siciliano) ammiccante alla gestualità televisiva ed attivo in uno spazio metateatrale dal quale filma con il suo staff di cameraman quanto avviene sulla scena (in effetti la vocalità rossiniana può ridursi ad esibizione ludica che si offre alluditorio-telecamera).
Domenico Colaianni (Bartolo) e Manuela Custer (Rosina)
Anche le scene di Santi Centineo alludono al mondo del videoclip dinizio anni80, con il loro piano doppio, dominato da giochi di ombre sui cromatismi del fondale e da veneziane allusive alle atmosfere di Flashdance e Nove settimane e mezzo. La citazione dai ‘miti televisivi dellOttanta invade anche i dettagli: si veda ad esempio come la postura del colpo vincente di Karate Kid veicoli la violenza del conte su Bartolo (I,19 «voglio ucciderlo»). Il lavoro sinergico tra Livermore, Centineo e la costumista Giusi Giustino si orienta inoltre verso una riproposta delle atmosfere di Almodóvar, dei suoi colori aggressivi, della sua ironia disperata, della sua critica alla convenzione ipocrita: Don Bartolo diventa così un generale franchista immedagliato che però non si perita di svilire al ruolo di plaid la bandiera spagnola. Di Almodóvar cè poi la corrosiva critica rivolta alla Chiesa Cattolica (si pensi al suo La Mala education): Don Basilio è a metà tra il prete (di cui indossa il collarino) e linquisitore poliziesco di regime (ne ha il cappello e limpermeabile); Almaviva-Alonso per travestirsi da ‘curiale veste i panni di un prete gay in abito donabbondiesco, mentre diventa un arcangelo barocco e piumato quando deve fingersi soldato (a tutto ciò fanno da contorno coretti di suore alla Sister Act).
Del resto è la sostanziale a-moralità sottesa ai meccanicistici personaggi rossiniani che dà libero adito a Livermore nello sbizzarrirsi per esporre la sua visione ironica e disincantata del teatro, qui in grado di esibire e sbeffeggiare i grandi miti ispanici: mentre canta la sua celeberrima cavatina Figaro è attorniato da comparse che simboleggiano il romanzo di cappa e spada, il toro e il matador, Carmen e Don José (questultimo viene sostituito da Figaro nellaccoltellamento della sigaraia!). Al di là delle trovate geniali e del gusto per la citazione (dalla TV anni 80 ad Almodóvar in questo Barbiere è pregevole la corrispondenza tra gesto e musica: la mimica e la stessa disposizione degli attori sulla scena stagliano le forme della drammaturgia di Rossini (un esempio: nel ‘concertato dello stupore Livermore ripete lidea, già attuata per la Cenerentola barese del 2003, di bloccare tutti gli interpreti e di farli poi muovere uno ad uno seguendo la successione in partitura dei ‘soli).
Ci siamo soffermati a lungo sulla regìa perché in realtà cè poco da dire sullottimo cast: Lopera e la Custer hanno rasentato la perfezione muovendosi con disinvoltura nelle acrobazie belcantistiche; bravo e sempre illuminato da vis comica Colaianni che ha smentito il motto evangelico del nemo profeta in patria; meno incisivo (anche perché ancora in erba) il cileno Christian Senn e ancor meno azzeccato il Don Basilio di Siwek; degna duscire dal circuito appulo-calabro il soprano Valeria Lombardi. La nota dolente nella raffinata produzione della Fondazione barese restano sempre gli archi dellOrchestra della Provincia (inetti ad eseguire un forte come si deve) la cui bradipìa non è stata smossa neppure dal brio rossiniano, qui esaltato dalla nervosa bacchetta di Steven Mercurio, un vero yankee che saluta il pubblico alla John Wain e che è capace di dirigere con tanto di chitarra a tracolla, contagiato da Figaro nel voler essere ‘factotum.
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