Quando sale sul palco l'ovazione è immancabile. Perché comunque siamo di fronte a chi ha rivoluzionato dall'America la canzone d'autore, provocando schiere di ammiratori e seguaci in tutto il mondo. Bob Dylan fa poi sempre parlare di sé: nel 2005 abbiamo avuto in ordine sparso l'edizione italiana dell'autobiografia Chronicles, il film di Martin Scorsese su di lui No Direction Home e il relativo doppio Cd della colonna sonora. Ma una cosa è confrontarsi con un mito a distanza, un'altra poter verificare dal vivo il suo stato di salute, come è successo nella prima delle due date italiane d'autunno al Palamalaguti, alle porte di Bologna. Allora ecco che in scena Bob Dylan, 64 anni portati benissimo, ha una valenza tutta particolare: si presenta con vestito, stivali e cappello nero facendosi accompagnare da un gruppo di musicisti che raccoglie il meglio che la scena americana di base può dare, come i chitarristi Danny Freeman (da Austin, Texas, che ha suonato anche con Jimmy Vaughan) o il bassista newyorchese Tony Garnier vero direttore d'orchestra di questa formazione, dato che dal 1989 ha suonato in oltre 1500 concerti con Bob.
Bob Dylan
Dylan preferisce porsi sul palco a sinistra suonando le tastiere (non toccherà mai la chitarra) e qualche volta la fedele armonica, quasi a mostrarsi come primus inter pares nonostante sia assoluto protagonista con le sue canzoni. Perché il repertorio è vastissimo e spesso non è facile operare scelte lasciando da parte brani conosciutissimi, a partire da Blowin' in the Wind e Mr. Tambourine Man per continuare con i pezzi dell'album Desire. Però c'è tanto materiale da rivisitare. Questa è la parola giusta, perché Dylan non si preoccupa di fare i suoi successi tali e quali, ma si diverte a talvolta a stravolgerli. Pensiamo alla suadente Girl from the North Country, irriconoscibile alle prime battute o A hard rains gonna fall. La voce in questi casi preferisce inventare melodie differenti che spesso possono risultare poco gradevoli all'orecchio abituato ai dischi. Ma soprattutto è interessante la scelta interpretativa: quella del rock'n'roll di un gruppo ininerante, cone le Revue americane insegnano. Un fatto che porta come conseguenza molta energia, in alcuni casi rotta occasionalmente da ritmi più lenti e dall'uso di strumenti acustici.
Splendida e intensa ad esempio è la versione di Highway 61 revisited, così come l'iniziale e potente Maggie's Farm, o Down Along the cove. Oppure la ritmata Tweedle dee, Tweedle dum o la ballata Sugar Baby, entrambe da Love & Theft del 2001. Compaiono anche brani meno conosciuti come Cold Irons bound o Never gonna be the same again, ma sembra che ad ogni pezzo Dylan voglia conferire una propria dignità nell'ambito di una proposta generale nel segno dell'eccellenza. I bis non deludono: c'è la canzone più bella del secolo scorso Like a Rolling Stone e All along the Watchover, sempre a tutto volume. Un concerto che ha mandato in delirio il pubblico, fatto anche di tanti giovanissimi. Peccato che c'era almeno un terzo del parterre vuoto, segno che anche i miti possono fare poco se i biglietti hanno un costo che ormai molti non si possono permettere.
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