Come rilevato in occasione di precedenti spettacoli allestiti dalla Fondazione Lirico-Sinfonica Petruzzelli e teatri di Bari, nel capoluogo pugliese mi sembra si siano finalmente uguagliati, nelle ultime tre stagioni, i fasti degli anni precedenti il rogo del teatro Petruzzelli, il cui lento processo di ricostruzione ha visto linaugurazione anticipata, alcune settimane fa, del foyer. Dopo lo sfolgorante ed iconoclasta The Beggars Opera di Britten, col verdiano Un ballo in maschera si ritorna apparentemente nel quieto alveo dellopera romantica italiana, ma in realtà la genesi controversa e molto articolata della partitura e del libretto si riflettono in una drammaturgia dalla cifra stilistica differenziata, come segnala Pierluigi Petrobelli nel libro di sala.
Dopo il grand opéra di Les vêpres siciliennes e la ricerca musicale di Simon Boccanegra, infatti, nel 1859 Verdi vorrebbe utilizzare la storia dellinvaghimento di Gustavo III di Svezia per la moglie di un suo luogotenente - con lesito tragico delluccisione del monarca nel 1792 - scritta da Scribe e già messa in musica da Auber un quarto di secolo prima, nonché da Mercadante nel 1843. Il racconto, per Verdi, non ha importanti valenze politiche: forse gli erano state sufficienti quelle che si erano concretizzate intorno alle opere precedenti. Ma il destino è evidentemente beffardo, se alcune coincidenze di carattere storico-politico, in particolare il tentato omicidio di Napoleone III (1858), inducono gli autori ed il teatro committente, il San Carlo di Napoli, a collocare in un ambitus meno attuale il plot narrativo. Viene difatti riposizionato in uno scarsamente definito medioevo guelfo e ghibellino che garba pochissimo al musicista bussetano, tanto da indurlo a ritirarlo per consentirne la rappresentazione al teatro romano Apollo (17 febbraio 1859). A causa della censura, gli autori sono costretti comunque a rivedere lopera, la cui azione viene così dislocata nella Boston contemporanea, in cui non un re ma il governatore inglese diviene opportunamente protagonista della vicenda.
Per quale motivo ho annoiato il lettore descrivendo la farraginosa genesi di Un ballo in maschera? Perché oltre alla stratificazione stilistica musicale operata da Verdi - sia detto non tanto per inciso, in modo mirabile e da par suo: si sente, soprattutto nelle arie, il miglior Verdi, quello più amato della trilogia romantica, senza per questo apparire come limitazione di sé stesso - mi sembra che lallestimento barese abbia tenuto conto proprio di quel travaglio, proponendo nei bei costumi di Alessandro Ciammarughi, ad esempio, soldati prussiani accanto ad avvenenti personaggi femminili in autoreggenti e berretto nazista; o trasformando i congiurati in nativi americani dallaspetto assai poco pericoloso - sembrano usciti, insieme con la selvaggia ed inquietante ambientazione ricostruita in studio, da un albo a fumetti di Zagor!
La scenografia di Antonio Fiorentino, in effetti, è composita perché passa dagli enormi e volumetrici parallelepipedi del primo atto, che servono anche a contenere, sul retro, le degradate scene della galera femminile in cui ladultera in pectore Amelia dovrebbe finire, alle esili scale del secondo e terzo atto, che lasciano intravedere, sotto e accanto, strane figure "fuori canto", non-personaggi che sembrano essere stati generati dal vero "protagonista" dellopera, un misterioso e contorto albero, avvizzito e cadente, che tuttavia costituisce non solo il primo oggetto scenico visibile agli spettatori ma, altresì, sembra mosso da vita propria, grazie a spostamenti meccanici indietro ed in avanti - il cui effetto ricorda quello ottico "da vertigine" della tromba delle scale in "La donna che visse due volte" di Alfred Hitchcock - e, soprattutto, alla trovata più geniale dellallestimento, un coacervo apparentemente informe di esseri che solo con difficoltà si scoprono come umani, abbarbicati ai rami, striscianti lungo il fusto, come immondi frutti di un tronco degradato, la cui sinistra e perenne presenza in scena (finanche in alcune ambientazioni al chiuso, come riferito prima), non è che simbolo di quel groviglio di crudeltà umane che le maschere antigas dei soldati o i corpi straziati delle prostitute in galera pongono al centro della narrazione barese, ripresa dallallestimento che il regista Giancarlo Cobelli aveva già curato per il teatro delle Muse di Ancona.
In questa prospettiva, quale ruolo poteva ricoprire questo inquietante vegetale della vita e della morte se non quello dellantro della indovina Ulrica, mirabilmente interpretata dal contralto Emilia Boteva? Viene a questo punto dobbligo parlare del cast musicale e vocale. Ebbene, forse lOrchestra della Provincia di Bari, diretta con forza propulsiva e capacità da Andrea Licata, ed il Coro lOpera, preparato come sempre da Elio Orciuolo, hanno "sentito" in modo particolare le finezze stilistiche di questa partitura, che appartiene davvero al "grande" Verdi, se sono riusciti a mantenere una tensione artistica esemplare, in particolare gli archi il cui suono appariva, spesso, dotato di estrema e compatta unitarietà.
Se la partitura ed il libretto sono creati attorno alla figura del governatore Riccardo (che deriva così chiaramente da Gustavo III da essere incoronato in scena), è posta in evidenza la prova del notevole tenore Marco Berti che lo interpreta, dalla possente emissione vocale e con interessanti capacità attoriali, cui ha saputo tenere testa il baritono Nicola Alaimo (Renato) e, fra i ruoli femminili, la soavissima Paola Cigna (Oscar), inarrivabile soprano nellandrogino ruolo en travesti che poi, nel ballo finale, si svela come iper-femminile, con calze nere autoreggenti, corpetto in pelle nera e verve sadomaso.
Compresa nel suo ruolo di moglie e proto-amante troviamo il bravo soprano Elisabete Matos, in quello del credibile marinaio Silvano il basso Alessandro Battiato, i congiurati Samuel e Tom erano interpretati da Reda el Wakil e da Pietro Naviglio, questultimo basso in grande evidenza, mentre Gianluca Moschetti ha ben svolto il doppio ruolo di un giudice ed un servo di Amelia.
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