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Rinascimento rossiniano

di Elisabetta Torselli
  Tancredi
Data di pubblicazione su web 31/10/2005  
Viva Rossini! Una non programmata ma felicissima convergenza nei cartelloni di due teatri toscani, il Verdi di Pisa e il Comunale di Firenze, ci ha permesso di ascoltare e vedere a pochi giorni di distanza Semiramide e Tancredi. In ordine inverso, l'alfa e l'omega del Rossini serio italiano. Tancredi, primo grande successo nell'opera seria (ma aveva già scritto Demetrio e Polibio e Ciro in Babilonia), conseguito a soli ventun anni dopo le affermazioni già notevoli in ambito comico, legate soprattutto ma non esclusivamente ai teatri di Venezia per le stagioni di Carnevale (La cambiale di matrimonio, L'equivoco stravagante, L'inganno felice, La scala di seta, La pietra del paragone con la quale esordì alla Scala, Il signor Bruschino). L'approdo di Semiramide, dieci anni dopo; sempre alla Fenice, sempre con un libretto di Gaetano Rossi da Voltaire; ma questa volta, con Semiramide, congedandosi dal pubblico d'Italia con un'opera in qualche modo definitiva, prima di andare a correre l'avventura parigina culminante nel Guillaume Tell del 1829. Nel mezzo, fra Tancredi e Semiramide, c'è dunque la maturazione del Rossini soprattutto napoletano (ai teatri di Napoli, il San Carlo in primis, Rossini si legò con il contratto stipulato con l'impresario Domenico Barbaja): trascurando i noti capolavori comici e per citare solo le cose che ci sembrano più importanti in ambito serio, l'Otello (1816), l'opera-oratorio Mosè in Egitto (1818, poi ripreso a Parigi in forma di Grand-Opéra con tanto di balli nella versione francese Moise et Pharaon del 1826), la meravigliosa Donna del Lago da Walter Scott (1819) in cui i presentimenti romantici increspano come una fresca e delicata brezza dal Nord un paesaggio peraltro leggiadramente classico e belcantistico. 

 

Semiramide
Semiramide



Alla fine della vita, un Rossini vecchio, saggio, umorista apatista, uscito fuori da una lunghissima fase di depressione e di impotenza creativa con la seconda giovinezza dei Péchés de vieillesse e della Petite Messe Solennelle, avrebbe scritto, nella famosa dedica a Dio (!) di quest'ultima: "Ero nato per l'opera buffa, tu lo sai", accettando come profonda verità, limes o forse sacramento, questo destino di far ridere l'umanità (e se dobbiamo credere ad un notissimo aneddoto, anche Beethoven gli aveva detto la stessa cosa). Ma per noi rossiniani di una generazione particolarmente fortunata, che ha potuto godere dei risultati della Rossini-renaissance e del ripristino dei valori autentici della musica del Pesarese, proprio l'opera seria rossiniana si è rivelata un paradiso di riscoperte, e ci godiamo questo paradiso sentendo, oggi più che mai, di ritrovarci sotto le insegne di Rossini in una salda anche se piccola rocca di resistenza estrema della grazia luminosa del Bello, della perenne "attualità del Bello" per dirla con Gadamer: un'allegra guarnigione che guarda da lontano con olimpica sicurezza e un po' di compassione i poveri piccoli barbari scalcagnati e obnubilati, Famosi sulle Isole, Casalinghe Disperate, De Filippi e C. Senza contare che questa Rossini-renaissance ci sentiamo anche un po' orgogliosi che sia stata avviata dalle nostre parti, con il Maggio Rossiniano del '52 per cui Francesco Siciliani, nel riproporre l'allora dimenticatissimo Tancredi, avrebbe voluto Maria Callas nel ruolo del titolo e Renata Tebaldi come Amenaide. Una pace fra primedonne che non si poté realizzare, ma con un ripiego davvero illustre (Giulietta Simionato e Teresa Stich-Randall) mentre la giovane Callas veniva esaltata in un'altra riscoperta rossiniana, l'Armida.

La fortunata combinazione di Semiramide e Tancredi sollecita pertanto un'infinità di spunti di riflessione, di discorso sulla drammaturgia musicale. Cominciamo, dunque, dal famoso Lieto Fine nell'opera seria, questa cosa anche teoricamente ingombrantissima che ha, com'è probabilmente più che noto a molti dei frequentatori di questo sito, antecedenti illustri, dall'Euripide di Ifigenia in Tauride ai tardi romances di Shakespeare (senza contare il dramma pastorale italiano). E tuttavia, per i "nemici dell'opera", un'autentica bestia nera, una volontaria, capricciosa regressione rispetto allo sbocco naturale della peripezia, quasi che la catastrofe tragica non avesse forza di varcare l'Eden operistico e dovesse rifluire dalle sue soglie canore. In effetti il Lieto Fine nell'opera settecentesca e neoclassica è spesso infelicemente confezionato o meglio non confezionato affatto ma preso e messo lì. Se nell'Ifigenia in Tauride o nel Pastor Fido o nel Racconto d'Inverno ci si arriva attraverso un ben dosato e argomentato mix di svelamenti, agnizioni e miracoli - efficacissimo infatti anche sul piano della meraviglia - in cui lo spettatore si sente convinto ad un lieto fine che è, per così dire, possibile ma non scontato, in un orizzonte umano-divino ambiguo, sfuggente, dominato dal Caso, com'è appunto quello di Euripide e dell'ultimo Shakespeare, nell'opera spesso arriva di botto e sembra che ci sia perché ci dev'essere e tanti saluti (spesso per ideologia regale e imperiale: Idomeneo e Clemenza di Tito di Mozart, Vestale di Spontini). Così è anche nel finale più noto e diffuso del Tancredi, un lieto fine a dispetto della fonte Voltaire. 

 

Semiramide - Silvia Dalla Benetta (Semiramide) e Cristina Sogmaister (Arsace)
Semiramide - Silvia Dalla Benetta (Semiramide)
e Cristina Sogmaister (Arsace)


Indubbiamente Rossini - o meglio i suoi librettisti - stupiscono per la disinvoltura con cui riescono a confezionare un Lieto Fine non solo con le tragedie di Voltaire, il che oggi certo non preoccupa più di tanto, ma persino con Otello (non però, va detto, per l'Otello dell'edizione napoletana al Teatro del Fondo, bensì per una successiva versione per il Teatro Argentina di Roma, in cui le trame di Jago vengono svelate al Moro prima che egli abbia ucciso Desdemona e il tutto si risolve in un esultante duetto con coro per cui Rossini riutilizzò una pagina dell'Armida). In questo percorso da Tancredi a Semiramide di cui si diceva si approda ad una soluzione stupendamente bifronte, di trionfo del bene, ma anche di punizione sacrificale di una vittima-peccatrice che si è, in un certo senso, redenta da sé.

A parte che questo Lieto Fine dato sempre per morto è un cadavere singolarmente vivace e non solo nei film hollywoodiani (in fondo sotto questa categoria potremmo mettere anche il film sul caso Moro di Marco Bellocchio), proprio Tancredi dimostra che un fine non lieto era fra le ipotesi che Rossini prese in considerazione fin dall'inizio della sua carriera di operista serio, anche se non per esigenza propria ma, a quanto si sa, cogliendo, in vista di una ripresa dell'opera a Ferrara (subito, nel marzo 1813), un suggerimento del conte bresciano Luigi Lechi, l'amante di Adelaide Malanotte prima interprete di Tancredi. Ma il pubblico di Ferrara non gradì e si tornò così al lieto fine con cui Tancredi è stato sempre conosciuto e in cui semplicemente l'eroe fa ritorno vincitore ed è convinto da tutti della fedeltà di Amenaide. Il recupero del finale di Ferrara, che fino a pochi anni fa si credeva perduto, si deve ai discendenti di Luigi Lechi che hanno messo l'autografo di loro proprietà a disposizione della Fondazione Rossini di Pesaro. E straordinario lo è davvero, questo breve e sommesso finale tragico perduto e ritrovato, a cui Rossini appiccica la qualifica di cavatina ma è in realtà qualcosa d'altro, un lasciare che la musica e la vita si spengano e volino via quietamente, accompagnate da uno spoglio quartetto d'archi. Un'invenzione geniale: nella dimensione della musica cambia profondamente la natura dei personaggi, e ammazzare questo Tancredi sognante e palpitante richiede modalità meno altisonanti che non l'ammazzare il più eroico e risentito Tancredi di Voltaire.

Sui molti problemi filologici (non solo questo finale ma anche la questione della sinfonia iniziale, delle pagine sostitutive dei Palpiti e di Perché turbar la calma di Tancredi, dell'aria di Argirio Ah, segnar invano io tento, e molte altre) e di ricostruzione legati a Tancredi non si può che rimandare allo studio inserito nel programma di sala di questo spettacolo, Tancredi: romanzo e mistero di un'edizione critica, della maggiore autorità in materia, Philip Gossett, autore dell'edizione critica del Tancredi per la Fondazione Rossini di Pesaro, infaticabile e perspicace cacciatore di autografi, fonti e tracce rossiniane.



Tancredi - Darina Takova (Amenaide)
Tancredi - Darina Takova (Amenaide)


Straordinario dunque, questo finale, ma non sapremmo quanto coerente con il tono generale dell'opera, che è forse un altro. Del resto dopo il febbraio 1813, fra Venezia, Ferrara e le esecuzioni che seguirono a ruota un po' ovunque, era stata soprattutto la tenera, delicata, e tuttavia scolpita, tuttavia inebriante perfezione del melos rossiniano, esemplificata soprattutto dalla cavatina di Tancredi Di tanti palpiti, a conquistare il mondo, e perfino i rusteghi veneziani vecchio stampo, avvocati e mercanti, quelli che Goldoni qualche decennio prima ci dipingeva così sospettosi delle smancerie e del teatro a cui di rado e a malincuore portavano le proprie donne, si salutavano l'un l'altro in Piazzetta e sotto le Procuratie citando i Palpiti con il cantare Mi rivedrai - Ti rivedrò (esattamente come qualche stagione prima tutti i milanesi si erano messi a parlare in -ara nei salotti imitando la favella finto-turca della scena dei sigilli della Pietra di Paragone). Forse è bene non sottovalutare il giudizio di Goethe per cui l'aura naturale in cui questa musica respira è quella di una "favola boschereccia alla maniera del Pastor Fido" (così in una lettera del 1824 al suo consulente musicale Carl Zelter citata da Fedele D'Amico in un saggio del 1982 per il Rossini Opera Festival di Pesaro riproposto el programma di sala di questo spettacolo: Tancredi: due finali a confronto). Una favola boschereccia e innocente, per godere la quale bisogna prescindere da elmi, armature e trofei, e puntare al "candore verginale" (così Stendhal nella sua celebre biografia rossiniana) che è il tono non solo dei Palpiti, ma di tutta l'opera: "le sue avventure non ne sono che incarnazioni diverse, disposte in architetture leggere, secondo un'arte che si direbbe del giardinaggio" (D'Amico).

Tutt'altro caso quello di Semiramide, perché qui Rossini la prende proprio di petto, la materia tragica in alcuni dei suoi luoghi più fatali, più ricorrenti, più obbligati: un re ucciso a tradimento la cui ombra riappare minacciosa, l'incesto inconsapevolmente sfiorato, la presa di coscienza di ciò che di terribile comporterebbe l'imperativo della vendetta del padre. Il peso di questa materia su cui aleggiano i miti di Edipo, Oreste e Amleto si ferma in un impianto indubbiamente monumentale e dal colorito non tanto "asiatico" ma certo bronzeo e corrusco, a cui - come in Mozart per la generazione precedente - la fluidità acquisita nella dimestichezza con la commedia dà però movenze più vibranti e serrate, e il fiorire della vocalità con le sue colorature strabilianti acquista un'intonazione particolarissima, straniante e barbarica, ben rappresentata dalla pagina più celebre dell'opera, Bel raggio lusinghier di Semiramide. Si è parlato pertanto a proposito di Semiramide di un atto di fedeltà al passato dell'opera, ad una perfezione stilizzata e astratta che si sta incrinando sotto le nuove istanze del realismo romantico, ad una vocalità lussureggiante che parrebbe addirittura voler tornare indietro oltre Mozart (la cui Clemenza di Tito è il modello per l'impianto monumentale e corale di Semiramide), a Haendel; ma anche di ritorno alle origini dell'opera, al sogno di restaurazione musicale del teatro classico della Camerata fiorentina; e una discesa agli Inferi come quella di Orfeo è in effetti la scena del sotterraneo che culmina con il sorprendente duetto Arsace - Semiramide Giorno d'orror ! ... e di contento ... (ma si è parlato anche, non sappiamo quanto appropriatamente, di goethiano ritorno al regno sotterraneo delle Madri).

Ma in realtà la materia stessa, così diversa dai limpidi e del tutto dicibili affetti di un Tancredi, imprime un colore più fosco a tutta l'invenzione, e anche le progressioni drammatiche scandite dalla morfologia musicale sono già completamente fuori da questo preteso "ritorno a", e impostano le tipiche scansioni del melodramma romantico venturo che invece, ovviamente, mancavano del tutto in Tancredi che è un'opera tipicamente di grandi pagine vocali - cavatine e arie - e "numeri chiusi" che si susseguono. Se la caratteristica "solita forma" (sic) in quattro tempi (tempo d'attacco - cantabile - tempo di mezzo - cabaletta) del melodramma romantico italiano è chiaramente delineata nel 1829 con il Tell (ad esempio nella scena di Arnoldo e patrioti svizzeri all'inizio del IV atto), anche le giunture di Semiramide, benché disposte secondo un'architettura monumentale, vanno in questa direzione di organizzazione del flusso drammatico su grandi arcate di episodi musicali collegati, seguendo una linea ascendente, un crescendo di intensità drammatica. Come esempio se ne può indicare il grande blocco compositivo del finale primo, quello dell'apparizione dell'Ombra e della designazione di Arsace, costituito di sei episodi musicali distinti per andamento ma fusi fra loro. Questa volontà di fusione è confermata dalla nota circolazione, affinità e ciclicità del materiale tematico che fin dalla celebre ouverture dà a Semiramide la sua particolare compattezza. Tutto questo fa di Semiramide un'opera-giuntura fra passato e futuro che però fiammeggia nello splendido presente della vocalità.

 

Tancredi - Daniela Barcellona (Tancredi)
Tancredi - Daniela Barcellona (Tancredi)

 

Diciamo subito che si è trattato di due soddisfacenti realizzazioni musicali e sceniche. Un nuovo allestimento la Semiramide di Pisa, una ripresa di un famoso spettacolo di Pier Luigi Pizzi nato al Rossini Opera Festival di Pesaro nel '99 (per poi circolare in più teatri) il Tancredi fiorentino. A Pisa, fin dalla sinfonia, la direzione limpida e ben tesa di Filippo Maria Bressan, pur sul podio di un'orchestra non sempre all'altezza della puntigliosa e brillante scrittura rossiniana, restituiva in maniera ammirevole l'equilibrio fra passato e futuro dell'opera di cui si è detto, tra astrattezza e slancio dei diagrammi belcantistici, tra classicità del lessico e accensioni profonde nel taglio e nel ritmo drammatico. E' questa notoriamente un'opera da grandi voci, ma il giovane cast pisano era così accuratamente preparato da rendere l'esito buono anche sotto questo aspetto: molto bene infatti gli insiemi e duetti, come il già citato Giorno d'orror e di contento di Semiramide e Arsace, e tutta la dizione scolpita e le figure musicali bene a fuoco, come si ottiene solo da accurate, competenti e pazienti prove di sala con i cantanti. Citiamo almeno nel cast la Semiramide giovane e un po' aspretta ma sicurissima e svettante di Silvia Dalla Benetta, Paolo Pecchioli, Assur dal generoso e convinto impegno attoriale oltre che vocale, l'Arsace di Cristina Sogmaister, a cui manca per ora quel po' d'appoggio e fondamento che ci vorrebbe per i grandi ruoli rossiniani en travesti, ma di grande nobiltà e finezza espressiva, e l'Oroe autorevole e composto di Abramo Rosalen.

A Firenze, invece, il giovane direttore Riccardo Frizza poteva contare su autentiche stelle rossiniane, e visto che si tratta di un direttore già bravo, che già conosce il suo difficile mestiere, ci auguriamo, in futuro, che sappia riguadagnare una certa "centralità del podio" (soprattutto nel dare gli accenti: accentus seminarium musicae secondo l'antichissima sentenza) su cui peraltro si è forse anche troppo insistito negli ultimi decenni a scapito delle voci, ma che, insomma, un po' ci dev'essere, e Frizza ha le carte in regola, ci sembra, per rivendicare (va detto che il trentaduenne direttore bresciano ha fatto il suo esordio in un teatro così importante in un momento che non avrebbe potuto essere più sfavorevole, di alta ancorché comprensibilissima conflittualità per i tagli al FUS e la situazione di commissariamento, e sciopero sulla prima rappresentazione). Meravigliosa Daniela Barcellona, Tancredi, non solo per l'autorevole sicurezza del suo belcanto rossiniano, ma anche per la fresca spontaneità di restituzione del giovane personaggio maschile en travesti nel ruolo a cui deve il suo lancio internazionale al Rossini Opera Festival del '99, dove, come si è detto, questo spettacolo è nato. Ma sorprendente anche Darina Takova nel portare, con la sua interpretazione della scena del carcere (culminante nella cavatina No, che il morir non è) e della preghiera (culminante nell'aria Giusto Dio che umile adoro), un più personale accento d'intensità nella grazia luminosa di Amenaide; quanto all'altro grande ruolo, Argirio, Raul Gimenez aveva dalla sua eccellente scuola e grande tecnica a dispetto dell'inevitabile usura di una lunga e bella carriera di rossiniano doc.

A Pisa la regìa di Stefano Vizioli risolveva in disposizioni sceniche eleganti e ben leggibili la dialettica singoli-coro e, a parte qualche soluzione opinabile come il cattivo, Assur, che si fa una pista di cocaina, realizzava nell'agire dei protagonisti un ben calibrato equilibrio fra verità delle passioni e formalizzazione musicale e scenica, come si dovrebbe fare sempre nella regìa d'opera. Il milieu orientale era risolto con qualche bella invenzione, come le suggestive "nozze indiane" di Idreno e Azema, ma soprattutto con un prestigioso decoro scenico (scene di Lorenzo Cutùli, costumi di Anne Marie Heinreich), tra grandi maschere, cupole e idoli alati, in crudi rossi e intensi azzurri, ispirandosi ad un'Asia perturbante e fantastica, in stile Secessione viennese e dintorni, rifacendosi soprattutto alle immagini inquietanti di Fernand Khnopff. Del tutto spoglia e allusiva ad una classicità da Magna Grecia la Siracusa di Pier Luigi Pizzi per il Tancredi: un grande colonnato dorico che si inclina e si solleva a definire gli spazi aperti e chiusi previsti dalla vicenda, un'ara centrale (che poi diventa la prigione di Amenaide) come a celebrare le origini dionisiache e divine del teatro, a cui parevano alludere nelle loro apparizioni le figuranti e corifee mute compagne di Amenaide. La regìa (sempre di Pizzi, qui ripresa da Massimo Gasparon) era altrettanto lineare e lasciava tutto lo spazio che si meritano alle grandi pagine vocali del Tancredi che di tutto hanno bisogno meno che di commento registico e di controscene. Successo meritato per tutti e due gli spettacoli, e avanti con Rossini!


 

Semiramide / Tancredi

Semiramide, melodramma tragico in due atti
cast cast & credits
 
trama trama
Tancredi, melodramma eroico in due atti
cast cast & credits
 
trama trama
 

 
Semiramide
Semiramide
 

 

 

 

 


 

Tancredi - Darina Takova (Amenaide) e Daniela Barcellona (Tancredi)
Tancredi -
Darina Takova(Amenaide)
e Daniela Barcellona (Tancredi)


 

 


 

 
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