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Amori, frecce, isole...

di Marco Luceri
  L'arco
Data di pubblicazione su web 29/10/2005  

Le consuete istantanee di bellezza di Kim Ki-Duk. L’arco, nuovo film sfornato dall’iperattività creativa del giovane maestro coreano e presentato al festival di Cannes (quando da noi erano ancora nelle sale La samaritana e Ferro3), pur rifacendosi chiaramente all’universo figurativo e tematico kimmiano, sembra rappresentare nella filmografia del regista una sorta di pausa, o meglio un affresco magico e discreto, privo però per buona parte della potenza drammatica e dell’originalità delle sue ultime opere. La trama, come al solito è esilissima: il vecchio pescatore custodisce con sé la ragazza da quando lei aveva sei anni e aspetta il giorno del suo diciassettesimo compleanno per sposarla; gli unici rari visitatori di questo piccolo mondo galleggiante sono alcuni pescatori che il vecchio mette in fuga con le frecce scagliate dal suo arco appena essi mostrano interessi per la sua futura moglie. A guastare l’idillio di questo hortus conclusus arriva però un giovane, che riesce con la sua dolcezza a sedurre la ragazza. I due progettano la fuga, ma il vecchio sarà pronto a rischiare la vita pur di non essere abbandonato.


Sarebbe lecito parlare, a proposito de L’arco, di un film di passaggio, una sorta di riassunto disimpegnato delle più celebri pellicole di Ki-Duk: il triangolo amoroso (Ferro3) tra un vecchio, un giovane e una ragazzina (Han Yeo-reum, splendida interprete di Jae-young/Vasumitra ne La Samaritana), confinati su una barca (L’isola) che non tocca mai terra. Se a prima vista il regista sembra dunque sedersi sugli allori e riproporre qualcosa di dejà-vu, tanto da far sembrare L’arco semplicemente una buona prova di mestiere, un capriccio manierista, e niente più, in realtà il film sembra trovare una sua ragione proprio nella sua natura puramente "haiku". Essa è una delle più antiche dottrine orientali che predilige la contemplazione silenziosa degli elementi naturali, qui il cielo e il mare, come veicolo per il raggiungimento della pace e dell’equilibrio interiore. In questo L’arco si avvicina molto al viaggio iniziatico di Primavera…, e il personaggio della ragazza sembra riassumere in se la potenza evocativa di queste visioni, tanto da far percorrere all’intero film uno strano percorso: da una parte il più classico dei melodrammi, dall’altra un’originale esperienza del visibile.



Nell’intera filmografia di Ki-Duk narrazione e visibilità hanno sempre avuto un rapporto di stretta interrelazione, in un misto di originalità e provocazione che hanno tenuto insieme molto felicemente le due componenti. Ne L’arco per la prima volta si verifica una rottura, nel senso che il maestro coreano preferisce chiudere la narrazione in pochissimi eventi significativi, lasciando molto più spazio al simbolismo della visione estatica, e trovando nell’immobilismo del quadro generale la ragione del suo affresco. In realtà l’entrata in scena del ragazzo serve solo da espediente drammaturgico per rivelare la tragicità del rapporto quasi incestuoso tra il vecchio e la ragazzina. Per questo L’arco non è un film a tre, ma a due, e lo è tanto più grazie a ciò che essi vedono.

L’insistenza sull’alternanza primi piani – campi lunghi (accompagnata dal dolente suono dello strumento ad arco inventato dal vecchio) è sintomatica di questa tendenza a chiudere la storia d’amore (?) tra i due nell’ambito della comunicazione visiva e gestuale. Bandita la parola (come già ne L’isola e in Ferro3), il legame è rappresentato dall’arco e dalle sue frecce che sono sia la forza autoritaria del vecchio sia il privilegiato passaggio alla conoscenza del futuro (splendide in tal senso le scene, le uniche di vera tensione, dell’altalena sospesa tra la barca e il mare, rimando poetico a Birdcage Inn). Ma ciò che più conta è l’invisibile che c’è tra i due, l’interiorizzazione profonda che coinvolge i sentimenti e l’anima del vecchio e della ragazzina, che non potendo trovare un corrispettivo sulla scena, lo trova nella contemplazione malinconica degli elementi naturali. La metà del film è infatti occupata da immagini dei due che si osservano solitari, scambiandosi lo sguardo, e restituendolo al mare e al cielo.


In tal senso Ki-Duk ne L’arco sembra essersi appropriato del celebre motto di Jean Cocteau "Je décalque l’invisible" e ne è un segno tangibile la scena che chiude, molto poeticamente il film, in cui la ragazza, ormai sposa, su una barca alla deriva, perde la sua verginità facendo l’amore con un’entità invisibile, che nel gioco di rimandi poetici, altro non che è il vecchio, scomparso in mare, la cui ultima freccia scagliata "squarcia" l’imene della sposa. Ciò che non può la messinscena può la poesia del cinema, sembra dirci Ki-Duk, che come un arco teso verso l’infinito colpisce ancora l’immaginazione di tante storie impossibili. Quelle che forse, oggi, riesce a farci vedere solamente lui.

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L'arco
cast cast & credits
 
 

 


 



 

 

 


 

Kim Ki-Duk
Kim Ki-Duk




 

 
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