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Visioni celate

Riccardo Castellacci
  Niente da nascondere
Data di pubblicazione su web 26/10/2005  
Una famiglia borghese parigina - il padre Georges (Daniel Auteuil), cinico conduttore di una trasmissione televisiva dedicata ai libri, la moglie Anne (Juliette Binoche), redattrice editoriale che non disdegna di tradire il marito con il proprio collega di lavoro, amico di famiglia, e il figlio Pierrot, bambino introverso e problematico, amante del nuoto e della musica hip hop - è turbata da misteriose videocassette che riprendono momenti della loro vita privata e che sono accompagnate da infantili e minacciosi disegni. I filmati condurranno Georges di fronte ad alcuni ricordi rimossi del proprio passato, quando ancora fanciullo causò l’allontanamento di un bambino algerino adottato dalla sua famiglia, Majid, orfano in seguito alla repressione della polizia francese nel 1961. L’incontro fra i due, ormai adulti, porterà al precipitare tragico degli eventi.

Daniel Auteuil
Daniel Auteuil

Niente da nascondere, premio per la miglior regia al 58mo festival di Cannes (2005), si presenta come un film teso a esplorare la doppia natura del cinema: da una parte il racconto, dall’altro il desiderio di mostrare e interrogarsi sulle forme della visione.

L’espediente narrativo adottato da Michael Haneke ricorda l’incipit di Strade perdute di David Lynch: una coppia molestata dal recapito di videocassette. In entrambi i film, le prime immagini del vhs coincidono con la soglia dell’abitazione borghese dei protagonisti, la quale si dimostra, una volta varcata, luogo precipuo del rimosso, in cui le fragilità e le espressioni passionali rimangono celate, inespresse, cariche di intenso annichilimento. I due film sviluppano in modo completamente differente il soggetto narrativo; tuttavia l’osservazione dell’analogia permette di rilevare un concetto spesso richiamato nell’opera dei due artisti: l’ambiguità. In Niente da nascondere simile caratteristica si presenta legata alla stratificazione dei sensi su cui è costruito il film e, in particolare, all’opposizione irrisolta fra oggettivo e soggettivo, che colloca al centro della rappresentazione la domanda “chi guarda?”.

Nella prima inquadratura il film mescola il punto di vista di una telecamera fissa con quello degli eventi raccontati dalla macchina da presa. Diviene impossibile per lo spettatore distinguere fra la realtà dei personaggi e quella ripresa dai misteriosi filmati che la coppia parigina trova sulla porta di casa: solo l’entrata in funzione del tasto forward – attraverso un intervento brusco nella manipolazione del tempo filmico - permetterà di ricondurre l’immagine al suo preciso ruolo narrativo, alla visione di qualcosa che è già stato ripreso.

Niente da nascondere

Il processo di indagine condotto dal regista sulle forme proprie della narrazione e del racconto cinematografico (l’insistere della macchina da presa su esterni vuoti in cui non accade nulla, la possibilità di modificare il tempo e ripercorrerlo intervenendo sul nastro magnetico) è calato dentro una struttura di genere propria del thriller. La costruzione di una precisa climax narrativa e visiva sul taglio alla gola, è degna di un film horror: i disegni recapitati, il suicidio di Majid, la ferita che aveva caratterizzato la loro vita di bambini, tutto concorre a creare un senso di oscura minaccia che gravita intorno alla famiglia parigina. La molla della tensione scatterà durante l’incontro fra Georges e Majid, attraverso il tragico suicidio dell’algerino. La scena rappresenta l’atto di sangue cui è teso il film fin dall’inizio; un atto di violenza cui il protagonista assiste insieme con lo spettatore in una glaciale incapacità di intervenire.

Haneke ci conduce inesorabilmente all’interno di ciò che è nascosto (Caché appunto, come recita il titolo originale tradotto curiosamente in italiano) e la recitazione dei protagonisti sostiene tale esplorazione. Auteil grazie alla ricerca di una gamma espressiva di sentimenti sfumati e contrastanti, contribuisce a creare un personaggio in parte ottuso, incapace di accettare e capire le ragioni della sofferenza dell’altro, ma dotato di un suo mistero (si veda a proposito l’intenso incontro con Annie Girardot).

La scelta di mantenere una precisa distanza fra la macchina da presa e gli eventi raccontati, ottenuta stilisticamente attraverso l’uso della cinepresa fissa e di lunghi carrelli orizzontali, si spiega con il tentativo del regista di superare il dato biografico di partenza e portare il discorso su una prospettiva storica più generale.

Il rimosso di Gorges sembra corrispondere a quello di un’intera nazione, la Francia e il caso Algeria, che si rispecchia nel complesso di colpa che avvinghia l’intellettuale francese nei confronti di un passato recente e doloroso: una tematica cara al regista Haneke, tedesco nato nel 1942. Proprio questo passaggio dalla sfera individuale a quella storica è forse l’elemento più critico del film, che può creare cautele interpretative. Trasformare un momento tragico della vita di un uomo in un atto storico non è un passaggio semplice e diretto come invece il regista sembra suggerire. Ma in fondo è Haneke stesso ad affermare che «in realtà i riferimenti storici sono solo un pretesto, la guerra non è il vero soggetto: quel che mi interessava davvero sottolineare è il senso di colpa che tutti, in particolare noi ricchi occidentali, abbiamo verso il Terzo mondo».

Haneke, al quale non è estranea la volontà di criticare la manipolazione operata dalla televisione, responsabile di una sistematica falsificazione degli eventi, non offre facili soluzioni e rifugge il finale consolatorio. Al regista tedesco interessa di più interpellare lo spettatore sul ruolo stesso dell'immagine, e porre le forme della visione al centro della ricerca. Nell’inquadratura che chiude il film, troviamo all’opera ancora una volta le domande fondamentali mosse dal suo cinema: chi sta guardando? Cosa vediamo? Attraverso quale sguardo?


Niente da nascondere
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Juliette Binoche
Juliette Binoche

 
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