Presentato in concorso al passato Festival di Cannes, Non bussare alla mia porta (Dont Come Knocking, 2005) ci riporta al Wim Wenders degli sconfinati paesaggi del West americano; gli stessi paesaggi scattati dieci anni fa circa (la somiglianza è sorprendente) e raccolti in Una volta, album fotografico e taccuino di viaggio da annoverarsi tra le più poetiche pubblicazioni del regista tedesco (Wim Wenders, Una volta, Roma, Socrates, 1993). Ma con Non bussare alla mia porta torna anche la collaborazione con Sam Shepard, già sceneggiatore di Paris, Texas nel 1984, che adesso, oltre a lavorare alla sceneggiatura e al soggetto del film di Wenders, interpreta il ruolo di Howard Spence, attore western in declino.
Wim Wenders sul set di Non bussare alla mia porta
Giunto alla fine della sua carriera Howard scompare dal set di un film per tornare ai luoghi del suo passato: rivede la madre (Eva Marie Saint) ad Elko nel Nevada per dirigersi poi verso Butte, Montana, dove a distanza di trentanni rincontra Doreen (Jessica Lange), una vecchia fiamma, dalla quale scopre di aver avuto un figlio, Earl (Gabriel Mann). La sua vita, che sembrava aver perso qualsiasi significato, riacquista nel giro di pochi giorni un senso del tutto nuovo: Howard ha davanti a sé la possibilità di ricominciare daccapo e sperimentare nuovi ruoli (e questa volta non nella finzione). Ma, prima che il responsabile di produzione Sutter (Tim Roth) lo rintracci per riportarlo alla troupe del film, che lo sta attendendo per le ultime riprese, Howard ha giusto il tempo di farsi conoscere dal figlio e di riscoprire una dimensione famigliare che la dissoluta vita da star gli aveva progressivamente negato.
Tim Roth e Sam Shepard
La storia costruita da Wenders/Shepard – è il caso di dare pari merito a entrambi gli artefici di questo lavoro – è un viaggio, al tempo stesso, fisico e interiore. Un viaggio nel territorio, nello spazio e nel tempo di una realtà desolata, dove le cittadine spuntano allimprovviso, compatte, come ciuffi derba nel deserto. Così ci appare Elko vista dallalto dellappartamento della madre di Howard: un aggregato di case dalle tinte sbiadite nel bel mezzo di una valle. Quale sorpresa scoprire poi lo sfavillio dei colori dei casinò, che sembrano a forza voler rendere esuberante qualcosa che nonostante limpegno - e forse a maggior ragione - continua ad essere profondamente triste. Ed è proprio su questo scenario che si staglia la figura del protagonista; figura paradossale quanto il West, con uno sfavillante passato da grande attore e un presente sconfortante e solitario. Ripercorrere la “strada” del passato (con lautomobile del padre morto) resta la sua unica possibilità di rinascita.
Fairuza Balk e Gabriel Mann
Il tempo si trasforma rapidamente, si riduce (molto belli gli effetti di luce sulle case ricreati da Wenders), e dalla notte si passa velocemente al giorno e viceversa. Il tempo si dilata (quanto tempo si sta a guardare quelle bellissime carrellate circolari intorno ad Howard su un divano buttato in strada?), ed ecco che si fa spazio la riflessione, il vuoto e lassenza. Pochi ma intensi i momenti in cui Wenders si fa sentire e ci fa sentire il suo sguardo sul mondo; quella capacità tutta personale - di cui cominciavamo ad avere malinconia - di svelarci il silenzio dellanima e lannullamento dellessere nel naturale. Avrebbe potuto rubare più spazio al racconto che in questo film invece la fa da padrone: non si ha il tempo di apprezzare e gustare una pausa wendersiana che già ci ritroviamo immersi nel frastuono degli eventi.
La doppia autorialità del film, oltre a qualificare lopera come un lavoro di amichevole cooperazione tra Wenders e Shepard, si rende evidente anche nella forse cattiva distribuzione dei loro ruoli e nella prepotente presenza di un intreccio eccessivamente serrato, che di fatti non lascia spazio alle lunghe, interminabili, vedute e agli strazianti, loquaci, silenzi, a cui lautore tedesco ci aveva abituati nel passato, e che adesso probabilmente non ha più la forza di sostenere.
|
|