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Il letto delle avanguardie

di Elisabetta Torselli
  Il letto della storia
Data di pubblicazione su web 21/02/2003  
Un difficile, forse improbabile lieto fine, quello della vicenda creata dal poeta, romanziere e saggista Franco Marcoaldi per Il Letto della Storia, la breve (meno di un'ora e mezzo) nuova opera di Fabio Vacchi in prima assoluta al Piccolo Teatro del Maggio Musicale Fiorentino. Storia bella, ricca di tensioni profetiche a cui si esita a dar ascolto fino in fondo - com'è destino di ogni profezia - e che comunque implica una visione della storia tale che non si sa se crederci davvero, a quel lieto fine.

Susanna e Arialdo, perfetti "Narcisi del nuovo millennio" (come canta il coro: "Noi ci informiamo per non sapere. Piangiamo molto per non sentire. Guardiamo tutto per non vedere. Dimentichiamo per non soffrire. Dimentichiamo per non gioire"), incarnano, secondo ciò che sembra il credo dell'autore del testo e la sua concezione sostanzialmente apocalittica, un'umanità inaridita dai processi della modernità. Concezione che ha il suo miglior manifesto poetico nella Terra Desolata di Eliot a cui, non a caso, il libretto apertamente fa riferimento: la Morta che scopre le carte nell'ultimo atto mostra anche lei, come la Madame Sesostris del Seppellimento dei morti, il primo dei poemi che compongono La Terra Desolata, Marinaio fenicio annegato, Belladonna e Impiccato.

Eppure per salvarsi basta, a Susanna e Arialdo oramai schiacciati dal peso della propria vacuità, che Cecchino, che ha salvato il vecchio letto sfrattato dalla cascina, evochi da quel letto le anime dei morti, di quelli che hanno sofferto, amato, soprattutto cantato. Essi guidranno la coppia verso la riscoperta della dimensione della memoria, del racconto, della ricchezza, densità, vitalità del passato. Si pensa alle mille discese nel mondo dei morti di cui a partire dall'undicesimo libro dell'Odissea si è nutrita la scrittura; si rimane commossi dal libretto forse più che convinti (il dialogare con i morti e le loro leggende ha portato all'umanità altrettante sciagure che benedizioni: le faide familiari, etniche, politiche che si trascinano attraverso i decenni e i secoli non hanno forse quell'origine ?).

Ma è impossibile non pensare che questo lieto fine, che per tanti aspetti potrebbe apparire pretestuoso, sia giustificato drammaticamente dal fatto che i morti evocati cantano, si cantano, e cantando 'fanno' il racconto dei brandelli della propria vita, della propria esperienza. Il che ci riporta alle radici dell'opera, al suo atto di fondazione, all'Euridice di Jacopo Peri, perché anche lì il canto di Orfeo (la scelta di questa fra le mille possibili fabulae del mondo classico per far nascere l'opera non fu certo casuale) che varca la soglia fra vivi e morti è ciò che arresta il fluire della tragedia e la storna.

Ma qui sono i morti che cantano ai vivi ed è a questo terzo atto che Vacchi riserva il proprio colpo d'ala. Nei due precedenti, la musica è talvolta piacente e spesso sapientemente costruita (come del resto lo sono sempre le composizioni del cinquantenne compositore bolognese autore di Girotondo, La station thermale e delle musiche del film di Ermanno Olmi Il mestiere delle armi), delicatamente orchestrata secondo le voci di un organico lieve e nutrito nello stesso tempo, caldo di legni e di percussioni leggere e tinnanti e impreziosito da un uso accorto della riverberazione elettronica, ma non sembra palesare subito la carica emozionale e, appunto, profetica che non è forse nelle corde di Vacchi e che invece ci vorrebbe per sostenere un'idea di questa fatta.

Il compositore si 'siede' un po' comodamente sulle memorie di un Novecento musicale a trecentosessanta gradi e proprio per questo un po' stimbrato, tra Mitteleuropa e scuole italiane a cui, a tante cose teatrali di Malipiero, Petrassi, Dallapiccola sembra guardare la vocazione di questo lavoro ad atteggiarsi ad apologo morale teso fra astrattezza del disegno generale e irruzioni di concretezza, di realismo drammatico. Ma la drammaturgia gira intorno a un perno sostanzialmente antinaturalista, si organizza ad esempio intorno ad alcuni veri e propri "concertati", e non per niente Marcoaldi indica fra i suoi modelli librettistici il W.H. Auden della stravinskijana Carriera di un libertino. Forse vi è il ricordo di Bartok (non per niente, per antonomasia, il musicista attento a una "musica contadina") nelle ruvide polifonie di archi di Cecchino; un paio di puntate in direzione nervosamente neoclassica per Susanna e soprattutto per l'algido Architetto; qualche tocco da neo-impressionista per accompagnare la tempesta durante la quale si scatena la crisi.

La musica diventa di gran lunga più interessante e coinvolta quando fanno irruzione i morti, perché le apparizioni cantano su struggenti e antiche melodie e armonie popolari, rinascimentali, arcaiche. Vacchi si riferisce, nelle note del programma di sala, a melodie italiane trascritte dagli etnomusicologi, ma l'operazione è più profonda e va oltre la superficie del melos. Una sorta di primitivismo sofisticato, ma anche, con sincerità, la coscienza di una dimensione eterna e antropologica del canto come atto di presenza e come racconto di sé, con un orecchio aperto su certe miscele un po' world-music (come nel terzetto di armoniche a bocca che tuba in sordina le ultime armonie), ma anche con il ricordo conturbante di certi aspri intrecci del mottetto medievale. Va molto indietro, insomma, e molto avanti nella breve opera per ritrovare il filo del discorso, del racconto, soprattutto del canto, che al di sopra dell'accorto e ben condotto lavorio di scrittura di Vacchi sulla piccola orchestra è mortificato forse intenzionalmente in pose un po' astratte nei primi due quadri.

Lo spettacolo firmato da Giorgio Barberio Corsetti è pregevole e curato. Sulle pareti (nel gelido parallelipipedo vuoto immaginato da regista e dallo scenografo Cristian Taraborrelli) si spalmano immagini televisive e video, dagli altoparlanti domestici e da fuori risuonano attenuati gli echi della Babele contemporanea. Per la seconda entrata di Susanna la regia inventa una sapiente danza da bambola meccanica, da carillon, poi le sedie prendono a volare con inquietante leggerezza da fantasia surrealista. Come in molte regie d'opera viste ultimamente dilagano forse troppo i video, in particolare la mise en abime fra personaggi in scena e i loro doppi che scorrono sulle pareti. Ma i video di Fabio Massimo Iaquone sono belli e il loro incombere si scioglie, alla fine, in uno scorrere placato di nuvole, acque, volti contadini insieme a un mare di vecchie fotografie di morti che risalgono dall'oblio. Attenta e competente la direzione di Claire Gibault, complessivamente a posto e molto ben motivati scenicamente gli interpreti, Aurélie Varak, Sergio Spina, George Mosley, Roberto Abbondanza, Gianluca Valenti, Paulette Courtin, Maria Luce Menichetti.



Il letto della Storia
opera in tre atti


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