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International Festival

Il teatro No cristianizzato


Gherardo Vitali Rosati
  Lo spettacolo
Data di pubblicazione su web 23/08/2005  

Fu a seguito di un lungo viaggio in Giappone che Benjamin Britten decise di comporre un’opera esplicitamente ispirata al teatro No e al celebre poema del XIV secolo Sumidagawa, il fiume di Sumida. Al suo ritorno in patria si confidò subito con il librettista Wiliam Polmer, che aveva lavorato a lungo con lui ed aveva vissuto nell’isola asiatica negli anni ‘20, della cui arte era un profondo conoscitore. Del teatro No la nuova opera, che ebbe bisogno di ben 8 anni per essere terminata, mantenne alcuni degli strumenti, certi canoni fondamentali oltre che, ciò che è più evidente, la trama.

 Scritto da Juro Motomasa (1395-1431), uno dei primi a formalizzare la tradizione giapponese, Sumidagawa racconta la storia di una donna impazzita che deve attraversare il fiume eponimo per cercare il figlio disperso. Il traghettatore, dapprima impegnato in trattative con un altro viaggiatore, si interessa agli strani atteggiamenti della donna e si decide a portarla sull’altra sponda iniziando a raccontarle la storia di un commerciante di schiavi che 12 anni prima aveva rubato un bambino poi però subito morto per malattia. In breve si capisce che si tratta dello stesso fanciullo. I due giungono sulla sua tomba dove appare il fantasma del bambino che però svanisce allorché la madre gli si lancia incontro. A questo punto i personaggi iniziano ad uscire di scena concludendo lo spettacolo con una lugubre e tragica processione. 

 I cambiamenti richiesti da Britten riguardano essenzialmente il trasferimento dell’opera nel Medioevo cristiano, con l’introduzione di un coro di monaci che sostituisce il laico gruppo di uomini che accompagna tutte le rappresentazioni del No. Il finale poi viene mutato in un’esperienza mistica, con la visione del fanciullo che diviene fonte di salvezza per la madre, che da quel momento esce per sempre dal suo stato di insania mentale per poter riabbracciare una vita normale. 

Come nel teatro giapponese, anche nell’opera che debuttò all’Aldeburgh Festival nel 1964, i ruoli vengono tutti interpretati da uomini, anche se quasi tutti i protagonisti dei poemi sono personaggi femminili:  il ruolo centrale in questo caso è svolto dal sorprendentemente preciso e potente tenore Toby Spence, da noi già una volta seguito e apprezzato per la prima mondiale di The Tempest, alla London Royal Opera House. Addirittura la struttura dell’orchestra viene totalmente trasformata in base alla tradizione asiatica: il suo organico è ridotto a sette elementi fra i quali l’organo ispirato allo strumento da bocca (sho) usato nella musica di corte. Si tratta piuttosto di un complesso da camera, dunque, il cui direttore, Garry Walker, non compare sul palco, dove invece sono disposti gli strumentisti. 
 

La regia di Oliver Py sottolinea ancor più l’aspetto cristiano voluto dall’autore: frequenti sono i richiami all’iconografia religiosa (l’apparizione del fanciullo viene presentata esattamente come Cristo Trionfante), e alla simbologia (i cantanti, quando in scena vengono vestiti per i loro personaggi, ricevono dei segni di vernice rossa, possibili rimandi alle stimmate), la disposizione dei personaggi segue spesso figure geometriche: entrando in processione, disponendosi poi in un perfetto triangolo, riunendosi in un cerchio intorno al protagonista. Gli elementi emozionali dell’opera sono realmente numerosi e riguardano sia l’aspetto musicale che quello scenico, sapientemente creati e perfettamente eseguiti. Rari momenti di ironia  riescono per qualche istante a intaccare l’atmosfera pesantemente rituale che caratterizza lo spettacolo.















Curlew River, di Benjamin Britten



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