drammaturgia.it
Home | Cinema | Teatro | Opera e concerti | Danza | Mostre | Varia | Televisioni | Libri | Riviste
Punto sul vivo | Segnal@zioni | Saggi | Profili-interviste | Link | Contatti
cerca in vai

Pinocchiest Gump

di Roberto Fedi
  Pinocchio
Data di pubblicazione su web 01/01/2002  
Ha ragione Benigni quando dice, in una delle tante interviste che ha rilasciato per lanciare il suo Pinocchio, che le idee semplici per essere realizzate hanno bisogno di un grande apparato, e di molti soldi. Che in questo film si vedono, eccome: la scenografia è di lusso, la ricerca degli effetti è accuratissima (cosa insolita, in un film italiano), la location è ben trovata, i costumi sono molto belli, e i trucchi elettronici quasi non si vedono. Danilo Donati, purtroppo deceduto dopo la fine del film, ha svolto un lavoro eccezionale: è giusto, davvero, che il film gli sia dedicato.



Inutile dire quello che sanno tutti: e che cioè il romanzo di Collodi è di quei testi che non si possono mettere in scena o tradurre: bisogna appropriarsene, così come lo fu per l'Orlando furioso di Luca Ronconi, tanto per fare un esempio. Così esiste il Pinocchio quasi tirolese di Walt Disney, quello scricchiolante e sopra le righe di Carmelo Bene, quello veristico e libertario di Luigi Comencini e Suso Cecchi D'Amico. E anche il Pinocchio rivisitato di Kubrick-Spielberg di Artificial Intelligence. Così come, sul piano letterario, esiste il Pinocchio di Giorgio Manganelli e di altri: e poco importa se sono fedeli all'originale o più tendenti al tradimento. Come l'Odissea, questo non è "un" libro: è, piuttosto, "il" libro di sempre e di tutte le generazioni. Logico, quindi, che ci se ne appropri.

Ora, il problema è proprio questo. Che Roberto Benigni, regista e interprete e co-sceneggiatore, e Vincenzo Cerami, sceneggiatore in primis, di fronte a Collodi si sono sentiti - o così ci sembra - come intimiditi. Ne è uscito un film visivamente molto bello e narrativamente (e anche simbolicamente) modesto; qualche volta imbarazzante. Procediamo per gradi.

Confessiamo che siamo andati al cinema prevenuti, cosa che non si dovrebbe fare ma che secondo chi scrive è inevitabile dopo il mediocre La vita è bella (gli Oscar non ingannino: non se ne parlerà più per omnia saecula saeculorum), e soprattutto dopo le interviste-lancio di un Benigni sempre più presuntuoso, invadente, esagerato nell'autostima e superficialmente urlante (e poi: basta con le scenette in cui ride a crepapelle "prima" di dire le battute. È un gioco che mostra la corda e rischia di far ridere ormai solo lui). Perciò la prima impressione del film si porta dietro, da parte di chi scrive, un imprevisto mea culpa. L'immagine iniziale infatti (la carrozza della Fata trainata dai topini) è degna di un meraviglioso film onirico: accidenti, ci siamo sbagliati.

Le cose cominciano a sbilanciarsi con l'entrata in scena della Fata, una Nicoletta Braschi purtroppo incapace di recitare - come sempre - e qui somigliante più che alla Fatina dai Capelli Turchini a una maestrina della scuola elementare che ha sbagliato lo shampoo, e che rimprovera un Pinocchio che potrebbe essere il marito scapestrato e truccato da bambino scemo, reduce da una festa di Carnevale. L'evidente citazione (imbarazzante sul serio) da Forrest Gump - la farfalla che appare all'inizio e alla fine: là era una piuma - mostra come certe leggerezze narrative possano essere usate una volta sola, perché si bruciano subito. Non emozionano più. Così il Benigni-Pinocchio, per cui gli autori hanno scelto la chiave interpretativa della calviniana leggerezza, si muove talvolta bene ma sempre in evidente affanno: sia per l'età (sappiamo che non saremo apprezzati: ma come si fa a recitare Pinocchio a cinquant'anni?), sia per la inconsistenza della trama narrativa così come viene organizzata nel film: che nel romanzo è potente proprio perché tutto (il paesaggio, i personaggi, la storia, le metafore, la peripezia) è affidato all'immaginazione e al tumultuoso e sorprendente susseguirsi degli eventi, e qui invece è spiegato come in un teatrino felliniano, messo di fronte allo spettatore magari ammirato ma in debito di meraviglia via via che la storia si sdipana.

Il film è così molto fedele al testo (con molte omissioni, ma talvolta con le stesse battute), ma allo stesso tempo fa l'impressione di venirne fuori come una superfetazione immaginativa. Lo scenario è insieme teatrale (le ricostruzioni in studio) e realistico (la campagna senese e della Val d'Orcia: per la quale chi scrive vanta un primato di utilizzazione, come sfondo iconografico di un suo libro del 1990 edito dalla Banca Toscana: Pinocchio. Lo spazio delle meraviglie), laddove si ricorderà come in Comencini, autore del miglior Pinocchio post-collodiano che si ricordi, la natura toscana brusca e vera come in un romanzo di fine Ottocento, ma anche dolce come una nostalgia, era un necessario complemento alle azioni del bambino protagonista, insieme scabro e tenero anche lui, miracolosamente in bilico tra favola e verismo descrittivo.

In questa ricostruzione è quasi inevitabile che Benigni regista (sempre mediocre) se la possa cavare solo con un insieme di quadri tutti molto belli, ma narrativamente non consequenziali e senza 'tenuta' romanzesca; e il Benigni attore sia sempre lì lì per esplodere in qualche strampalatezza, e invece se ne stia compassato e impalato in una evidente impossibilità di realizzazione del personaggio. Insomma, si ha quasi l'impressione che Benigni (grande performer e non un interprete buono per tutti gli usi) qui abbia messo in scena un Pinocchio così agghindato da essere per così dire nato già buono: laddove, invece, il burattino diviene un bambino perbene proprio nel momento in cui muore. La favola spesso pensosa e crudele di un bambino-burattino 'cattivo' e quindi insolente e fuggente che non vuole diventare uomo perché sa che così è destinato alla morte, e che dà angoscia pur nella peripezia romanzesca, si trasforma così in una simbologia della leggerezza: alla fine, non si capisce bene neanche di cosa, se non di una generica voglia di fantasia.

È un peccato, perché con l'eccezione della Braschi gli attori sono non di rado bravissimi (fra tutti un insospettabile Kim Rossi Stuart, perfetto), e perché la ricerca iconografica è stata eccellente: così del film rimarranno nella memoria i 'quadri' viventi ripresi dalle illustrazioni di Chiostri o Mazzanti (bellissima la scena dell'impiccagione alla Quercia Grande, o del duo Pinocchio-Geppetto nella bocca dentata del Pescecane); così come sono sicuramente toccanti e non esibite le scene della morte di Lucignolo-Ciuchino e del pianto sulla tomba della Fata - anche questa ripresa intelligentemente dai primi illustratori. Nel complesso, e rimanendo dell'opinione che Comencini resta insuperabile, e che Spielberg è da rivedere per la sua strepitosa invenzione e struggente capacità evocativa nell'adattare ai tempi il simbolo dell'infanzia perduta e della ricerca della madre, usciamo un po' delusi e un po' compiaciuti. Ci sembra, alla fine, un'occasione semi-persa: ci sarebbe voluto un diverso regista, e - ci sia concesso dirlo - un diverso attore: o, meglio, un attore che fosse stato molto meno impressionato nel tradire Collodi, ma molto più attento a non tradire se stesso.



Pinocchio
cast cast & credits
 
 


 

Roberto Benigni
Roberto Benigni




 

 
Firenze University Press
tel. (+39) 055 2757700 - fax (+39) 055 2757712
Via Cittadella 7 - 50144 Firenze

web:  http://www.fupress.com
email:info@fupress.com
© Firenze University Press 2013