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Gangs of New York: il cerchio di neve delle religioni

di Marco Luceri
  Gangs of New York
Data di pubblicazione su web 04/02/2003  
Ritardi su ritardi, ma alla fine ci siamo. Preceduto da un clamore mediatico e da un'attesa spasmodica che ne hanno fatto una leggenda già prima del lancio, attesissimo all'ultimo festival di Cannes dove non è mai arrivato, finalmente è uscito anche nelle sale italiane il nuovo film di Martin Scorsese.

Sicuramente dedicare l'attenzione alle fasi che hanno portato alla realizzazione del film potrebbe essere un elemento interessante per capire quanto il regista newyorkese, nel parlare della "sua" New York (e dunque della "sua" America) abbia voluto osare nei confronti della sua stessa città e del suo Paese, nel dipingerne la Storia e forse anche la mitologia.




Girato infatti interamente a Cinecittà (che per una volta è tornata ai vecchi fasti), Gangs of New York parla innanzitutto del suo creatore, Martin Scorsese. Che il regista italo-americano avesse in mente (o magari nel cuore…) di girare un film importante nell'officina dove furono realizzati alcuni tra i maggiori capolavori del cinema italiano, non era un mistero da tempo. Ma per un film come questo, che parla di radici e di legami di sangue in maniera così diretta ed epica, il discorso assume un valore simbolico molto più importante. Le radici che legano Scorsese, figlio di emigranti, come regista al cinema italiano e come uomo all'Italia, hanno consentito un'operazione di recupero di un certo alveo di situazioni, storie, atmosfere che devono al sacro, contemporaneo quanto contraddittorio sentimento di sradicamento e di desiderio di radici la loro ragione di sviluppo e di immissione in una Storia altra come quella Americana, la terra dove tutto è possibile, anche ri-nascere, anche però morire innumerevoli volte.

L'elemento autobiografico diventa allora una singolarissima molla per far scattare un complesso sistema di riletture personali della Storia dell'America , ed in primo luogo del Cinema che questa Storia l'ha raccontata. Con Gangs of New York si voltano definitivamente le spalle a tutta una tradizione hollywoodiana che voleva che l'America nata con la lunga conquista del West, il lontano Ovest sconosciuto, la terra di nessuno su cui portare i valori di democrazia, libertà, giustizia dei coloni dell'Est, nato dalla Dichiarazione d'Indipendenza. Il lungo sogno americano, immortalato da decine e decine di film che avevano in Ford il maestro riconosciuto, qui lascia tremendamente il passo. Alle sperdute vallate dell'Ovest si sostituiscono le brulicanti strade della città dell'Est che esplode per le contraddizioni razziali, alle guerre con gli indiani si sostituisce la guerra di Secessione, ai valori della Carta quelli del Sangue, all'unica bandiera molti simboli sacri. Il filo che lega Scorsese alla tradizione è allora forse quello che passa attraverso il Griffith di Intolerance o di Nascita di una nazione, un antico filo rosso che si sviluppa sulle contraddizioni interne e non su quelle esterne.

Simboli sacri, si diceva. In effetti la componente religiosa in questo film è fondamentale, e non solo perché una delle due parti in lotta è irlandese (ed è noto il particolare rapporto con la religione che ha questo popolo), ma anche perché è proprio l'eccesso di simbologia religiosa (in senso lato) che conferisce quell'aura di sacralità, quella dimensione mitica ai personaggi che ne determina pesantemente le scelte; la loro è una religiosità istintiva, irrazionale, sanguinaria, come ben dimostra la stupenda, affollatissima scena d'apertura del film: a ritmo di rullo di tamburi e vecchie litanie della madrepatria, Scorsese ci accompagna nel cammino di questi "santi guerrieri" che dalle oscure caverne escono fuori nella calma, fredda e silenziosa cornice innevata del quartiere; sono solo attimi, quando la controparte fa il suo ingresso nell'arena e le regole dell'onore sono ripetute anche sul campo di battaglia, il silenzio lascia il posto alla violenza ferina dello scontro, tutto "fisico", che si chiude con la morte del Padre Vallon (Liam Neeson) e la fuga del piccolo figlio.

Nel cuore di New York (come ci sottolinea lo stupendo, lunghissimo dolly che chiude la scena) si muore con onore e con onore si rinasce. Il filo che lega le storie di padre e figlio è ancora una volta un rasoio, una formula in forma di rito, un medaglione, ancora una volta simboli sacri. Le medagliette che portano al collo i tre personaggi principali, il nativo Bill le Boucher (un superlativo Daniel Day-Lewis), la giovane bellissima Jenny (Cameron Diaz), e l'irlandese Amsterdam (Leonardo Di Caprio), scandiscono e suggellano l'evolversi della storia: tutti e tre hanno e si scambiano questi oggetti del destino: chi ne ha troppi perché li ruba senza capirne il vero valore prima di perderli (Jenny), chi li dona per amore e poi vuole riottenerli come segni di tradimento (Bill), chi giura su di essi la missione della propria vita e del proprio amore (Amsterdam). Perché avere un medaglione significa avere una storia, appartenere ad una tribù, avere radici e poter proclamare il proprio posto nel mondo.

La contrapposizione che lega le due figure principali del film, Bill e Amstrerdam, è più fittizia che reale, vive cioè piuttosto nell'immagine della fabula, che non nella realtà drammaturgica: i due uomini non si contrappongono, si completano l'un l'altro in un movimento che si sviluppa in tre parti: la fuga del piccolo dopo la morte del padre, il tempo che i due passano l'uno a fianco all'altro, lo scontro fino alla morte di Bill. Ma, a parte la preponderanza tematica della seconda parte, è il carattere circolare di tutto il movimento che avvicina le due figure in uno spazio complementare. Alla fine infatti i due giacciono per terra l'uno di fronte all'altro, coperti di sangue e polvere (sepolti dagli avvenimenti della Storia che hanno impedito loro di misurarsi in una vera lunga battaglia), come in un sepolcro; subito dopo l'ultima immagine di Bill è ancora una volta l'immagine di una tomba, ma la sua tomba, il suo posto per l'Eternità, è al fianco di Padre Vallon, in un ideale storia continua che si perpetua, grazie all'onore, sul senso della morte e del sangue, che lega vite a vite, tribù a tribù, simboli a simboli, radici a radici.

Alla fine rimane la Storia, quella collettiva, con le rapidissime dissolvenze che ci narrano in pochi istanti la storia di un secolo e mezzo di America, e la voce di Bono, che canta sui titoli di coda "These are the hands that build America", sono queste le mani che hanno costruito l'America, la sua Storia e, forse, anche il suo Mito.


Gangs of New York
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