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Figari

di Sara Mamone
  Le nozze di Figaro
Data di pubblicazione su web 22/02/2003  
La Staatsoper di Berlino, istituzione celeberrima, alla quale i cittadini sono affezionati come alla Berliner Philarmonia e all'altare di Pergamo resta sempre un punto di riferimento per la vita culturale della città e non solo, con la solidità di una tradizione che non si turba mai con eccessi sperimentali, ma che mai abdica ad un livello di assoluta eccellenza.


le nozze di figaro


Anche in questi giorni la gloriosa istituzione diretta da Daniel Barenboim presenta, nell'apparente calma piatta di repliche di routine, più di un motivo di interesse. In un'alternanza che pare poco più che casuale vanno in scena due spettacoli rodatissimi: Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart e Il Barbiere di Siviglia di Gioacchino Rossini, due opere "italiane" dunque, di repertorio, la prima con una tenuta di circa 4 anni (il debutto dell'allestimento firmato da Thomas Langhoff è del maggio del 1999), la seconda con uno score di circa 35 anni (il debutto dell'allestimento firmato da Ruth Berghaus risale al lontano, lontanissimo 1968). Eppure…


le nozze di figaro


Eppure sembrano fatte insieme, o meglio fatte per stare insieme, la prima che racconta la vicenda matura dell'amore di Rosina ormai contessa e del conte ormai stanco e fedifrago dopo i fuochi dell'iniziale passione, preso dai suoi nuovi capricci e vecchi privilegi, travolto dall'energia e dagli estri della nuova working class sempre più cosciente della sua forza: da Susanna seduttrice che non accetta di essere sedotta, a Figaro che non accetta dipendenze che non siano di lavoro, ai personaggi buffi che ruotano attorno a questa folle giornata e le permettono uno scioglimento serio e patetico.
Il Barbiere di Siviglia



Tutto ritorna all'ordine (ma con quanta vistosa precarietà) nelle caselle che si ricompongono. Musica e drammaturgia sono, come ognun sa, sublimi, e così sublimi che si potrebbe cadere nella trappola delle emozioni e lasciarsi andare all'esecuzione perfetta di un ensemble efficace e omogeneo nonostante il disparato cast (gli eccellenti Michael Volle e Anja Harteros nei ruoli alti, Adriane Queiroz e Alexander Vinogradov nella coppia "en titre", con un occhio e un orecchio di riguardo per quest'ultimo, al suo debutto nel ruolo ma con una padronanza vocale e scenica oltre che un perfetto phisique du role che ne fanno un Figaro ideale; gli impeccabili Katharina Kammerloher e Kwangchul Youn, coppia buffa di vecchi; Dietmar Kerschbaum l'inefficace mezzano; Nadine Lehner arguta e promettente Barbarina; un po' sottotono soltanto il Cherubino di Nidia Palacios); alla concertazione piana e nitida della sempre più sicura Julia Jones, alla semplice ma non banale regia, tutta volta ad assecondare la leggibilità dell'opera piuttosto che a intralciarla con invenzioni fantasiose ma distraenti (pertinente ed efficacissima la distribuzione su due piani sovrapposti nell'atto finale, quello in cui l'infittirsi degli equivoci crea a volte qualche problema di comprensione).
Il Barbiere di Siviglia



Per tutto il corso della rappresentazione non sono mancati (grazie anche all'ammirevole capacità attorica degli interpreti) segnali precisi di metateatralità in un accorto gioco di immedesimazioni e distacchi; nell'atto finale con lo scioglimento che riconduce tutti ad una ragionevolezza per qualche ora dimenticata, nel momento in cui i sentimenti paiono prevalere nel riassetto del mondo (quanto meno di quello sentimentale) la presenza costante di un teatrino in proscenio riporta prepotentemente spettatori e interpreti alla realtà della finzione: quello spettacolo che ci ha illuso è l'esempio estremo e sublime di un'opera (meglio, di un genere) che danza sull'abisso.

Quell'abisso è un precipizio ormai superato qualche anno dopo nel Barbiere di Siviglia, dove il giovane Rossini fa decisamente piazza pulita degli stilemi del passato prendendo proprio questo passato a oggetto del suo melodramma buffo: il teatrino si dilata e assorbe l'azione e nessuno è più autorizzato a crederci. Il rovesciamento del genere è completo e nel confronto tra le due regie appare in tutta la sua genialità la scelta drammaturgica rossiniana che spoglia i personaggi mozartiani del dopo per presentarli in un "prima" puramente di genere dove tutto è vistosamente subordinato alla convenzione di un meccanismo troppe volte provato.

Gli sta dietro con il piacere infantile della distruzione del giocattolo Ruth Berghaus, che appronta un semplicissimo scenario di tele tirate e raccolte, un piccolo quadrato scenico da cui fuoriescono i personaggi ormai frusti di una commedia dell'arte che ha esaurito le sue sorprese e si ripete, si ripete, si ripete (il nome di Fiorillo per il servitore del conte di Almaviva esibisce la matrice dell'intero congegno).

Ma poiché tutti sono a conoscenza di tutto in questo spettacolo (la cui longevità conferma una freschezza miracolosa) riesce quel che raramente riesce a teatro, e cioè l'incanto di una complicità collettiva. Il divertimento degli stupefacenti attori-cantanti rotola presto in platea avvolgendo gli spettatori con il filo incantato di una magia musicale che pare fatta di nulla. Tutti stanno al gioco e i giochi sono fatti.

La bravura degli interpreti infatti è globale, il virtuosismo vocale è sempre complementare a quello scenico, gesti, movimenti tempi, sono scelti nella doppia funzione musicale e attorica, riuscendo e ricreare quell'impasto di competenze che fece la fortuna dell'opera buffa.

E dell'opera buffa l'accorta direzione di Julien Salemkour lascia agli interpreti la libertà di improvvisazione che questi colgono ad ogni passo, senza appesantimenti ma con gioiosa e continua generosità. In testa, naturalmente, c'è Rosina, incarnazione festosa dell'eterno femminino a cui Katharina Kammerloher dà i giusti ma non banali accenti di una finta ingenuità e di una vera malizia, ma, lo ripetiamo, malizia di interprete, nei suoi doppi giochi complice più del pubblico che dei suoi partners, gli uni e gli altri comunque menati per il naso ad ogni gesto, ad ogni nota.

Anche gli altri paiono (tranne forse il non suffcientemente coinvolto Almaviva di Yosep Kang, ancora al di qua di una vera comprensione del gioco) aver capito appieno la lezione della commedia dell'Arte, quella sua alternanza di convenzione e improvvisazione di fermo rigore interno ma di apparente disordine. In una lettura del genere Donato di Stefano (Dottor Bartolo) tutore di Rosina non poteva che nuotare come un pesce nell'acqua come il Figaro di William Dateley (vestito da Zanni con intuzione folgorante e rispetto quasi filologico dell'evoluzione del ruolo) e l'eccellente ma non parodico maestro di musica di Alexander Vinogradov (qui in una prova meno impegnativa di quella mozartiana, a confermare comunque una qualità speciale di mezzi vocali e scenici). Quest'altra folle giornata non ha bisogno di teatrini in scena per essere teatro.



Le nozze di Figaro
Commedia per musica in quattro atti


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