Uno degli spettacoli più belli degli ultimi anni, questo Bourgeois gentilhomme visto al Castello di Versailles nella preziosa sala dell'Opéra Royal. Bello perché intelligente, colto e godibile, nonostante le quasi cinque ore di durata, intervallo compreso.
Prima di tutto occorre apprezzare il ''restauro'' condotto su una drammaturgia abitualmente rappresentata in maniera incompleta, costituita dal solo testo dialogato di Molière, senza l'apparato consistente di musica, canto e coreografia con cui fu creata. Per ragioni di economia e di fruibilità certo, ma anche per una malintesa tradizione di routine che assegna quest'opera alla prosa mentre appartiene di diritto all'opera musicale. Del resto il fraintendimento di gran parte del teatro seicentesco e barocco – Commedia dell'Arte compresa - è cosa nota; assomiglia a quella mortificante trasmissione del teatro classico che dai capolavori greci ha cancellato le coreografie, i colori smaglianti delle scene e dei costumi, le musiche, tanto da rendere incomprensibile la presenza dei cori e dello spazio coreutico dell'orchestra.
Un scena di ''Le Bourgeois Gentilhomme'' (foto P. Victor/MAXPPP)
Del resto il titolo dell'opera è evidente: ''comédie-ballet de Molière et Lully''. E il secondo autore non è un casuale invitato alla messa in scena del più celebre attore-drammaturgo. Al contrario, i due lavorarono assieme e di comune accordo in un progetto che doveva offrire alla corte uno straordinario e complesso divertimento fatto di balletto, musica, canto, recitazione. Il capocomico Molière, oltre che co-autore, fu anche in scena nel ruolo-leader di Monsieur Jourdain mentre il musicista Lully, già altre volte ballerino, recitò nella parte del Gran Muftì, pare con effetti esilaranti. Due drammaturghi e, soprattutto, due compagni di scena per qualche tempo inseparabili. Al successo strepitoso delle prime rappresentazioni (1670) seguì un declino progressivo dell'opera che venne di secolo in secolo trasmessa più come testo teatrale che come opera musicale, salvo attirare la produzione di nuove partiture musicali che avrebbero sostituito quella originale ad opera di musicisti come Gounod (1858) o Jolivet (1951).
Parabola infelice che viene invece felicemente ribaltata dall'accurata e talentuosa edizione ordita da Vincent Dumestre a capo dell'ensemble ''Le Poème Harmonique'' coadiuvato dal gruppo ''Musica Florea'' diretto dal violoncellista Marek Strynel, con la regia brillante di Benjamin Lazar e uno stuolo imponente di attori, cantanti e danzatori, tutti in possesso di un alto livello di preparazione. La scenografia si adatta con umile grazia alla struttura teatrale di antico regime, fondendo l'impianto essenziale con l'arredo della meravigliosa sala. Nel trasferire in figure quel complesso testo-partitura-coreografia lo scenografo e il regista si sono ispirati alla tradizione iconografica, gloriosa soprattutto in terra di Francia, desunta dalla produzione dei pittori e degli incisori che accompagnarono la formidabili ascesa della Commedia dellArte e dei suoi derivati del secolo XVII. Non si assiste alla messa in scena di tableaux vivants, ma a un fluido metamorfismo dei costumi e delle pose sceniche che evidentemente si giova, al di là dei colori intensi e delle fogge filologicamente riprodotte, della cooperazione talentuosa di coreografo, regista e musicista. Un lavoro d'équipe davvero ammirevole.
La sala dell' Opéra Royal du Château de Versailles
Il ritmo della recitazione è scandito poi da un curioso impasto linguistico che ''imbarbarisce'' il francese accademico che fu canonizzato da Richelieu mediante una pronuncia ''all'italiana'' forse un po' troppo accentuata ma sicuramente suggestiva, in grado di restituire alla dizione un andamento meno ingessato e più adeguato agli esercizi di improvvisazione che attori e cantanti imbastiscono con acuto senso del ritmo. Impeccabile la direzione e l'esecuzione musicale, anche queste sapienti ma capaci di calarsi con grande elasticità in un contesto recitativo che ha bisogno di duttilità e leggerezza.
|
|