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Un ballo infernale

di Elisabetta Torselli
  Un ballo in maschera, regia di G. Cobelli
Data di pubblicazione su web 23/12/2003  
Un Ballo in maschera è un'opera bella e difficile, in bilico fra il tragico triangolo amoroso di prammatica (ma qui il baritono, anziché un padre, è un legittimo marito), la commedia galante, che sprigiona nell'invenzione austera di Verdi insolite tonalità mozartiane (pensiamo al paggio Oscar, en travesti come un novello Cherubino), e un'ambientazione assolutamente improbabile per questa trama, per questi tocchi di commedia, di danza, di ambiguità: le colonie americane della corona inglese. Per noi l'America puritana del Seicento ha la sua bella tradizione letteraria di peccato carnale ed espiazione; ma certo non possiamo immaginare che Verdi conoscesse La lettera scarlatta. Il suo fu un ripiego per collocare in una landa abbastanza lontana da risultare anodina, e dunque accettabile alla censura borbonica visto che l'opera era destinata in origine al San Carlo di Napoli, il tema del regicidio, declassato a questo punto a regicidio di serie B perché l'ucciso è solamente un vicerè: Riccardo conte di Warwick, governatore inglese di Boston.

Ma la storia, vera o quasi, a parte i condimenti del vero amore anziché del libertinaggio, era quella di Gustavo III di Svezia, realmente ucciso durante un ballo in maschera. Storia già portata in scena da Daniel Auber su un libretto di Eugène Scribe (Gustave III, ou le Bal masqué, Parigi 1833), e sulle loro tracce da Saverio Mercadante e Salvatore Cammarano, che avevano spostato la vicenda nella Scozia del Cinquecento (Il Reggente, Torino 1843). Prese in considerazione e respinte, durante la sua trattativa con il S. Carlo, altre possibilità (la Firenze del Trecento e addirittura un'ultima Thule teatrale: la poco appetibile Pomerania), Verdi, irritato, ruppe finalmente con Napoli, consegnò l'opera a Roma e, pur accettando la "soluzione coloniale", rivendicò un titolo che almeno chiariva l'argomento della storia perché esso, a parte il "Gustavo III", era precisamente lo stesso di Scribe (e infatti la maga africana conserva il nome alquanto nordico di Ulrica).

E' tema d'indagine da sempre, nella critica verdiana, questo ripiegarsi del compositore sul privato del triangolo più classico, in cui solo motivazioni di fedeltà coniugale e personale, e non potenti legami di patria, di parte, di etnia, sostanziano il conflitto; come se Verdi già pensasse ai temi e ai vincoli possibili di una nuova società, di una nuova Italia moderna e borghese (quella de La moglie ideale di Praga, magari; e al tema dell'adulterio Verdi aveva già dedicato il singolare Stiffelio). Un'Italia che ancora non c'era, giacché siamo nel 1859; ma stava per nascere, anche se è un po' paradossale che sui muri di Roma e d'Italia il noto acrostico patriottico "W Verdi" accompagnasse il successo della meno politica delle opere di Giuseppe Verdi. Quanto al libretto di Antonio Somma, oggi che giustamente ritorna sugli altari della critica il bistrattato Francesco Maria Piave (di ciò troviamo testimonianza anche nel bel saggio di Dino Villatico per il programma di sala, L'ambiguità del tragico nell'epoca moderna), dà più fastidio che mai il proto-boitismo velleitario e inelegante di Somma (il memorabile "V'è d'uopo che innanzi m'abbocchi a Satàno" di Ulrica sembra in effetti un infelice presentimento del peggio del peggio del Boito di Re Orso).




Un ballo in maschera



L'elemento di richiamo in questo Ballo in maschera del Teatro delle Muse di Ancona era certamente la messinscena firmata da Giancarlo Cobelli, e la realtà dello spettacolo ha confermato la previsione. Proprio lo spiazzamento del Ballo dall'Europa settecentesca libertina e festaiola alla Boston puritana è l'elemento da cui sono partiti Cobelli e i suoi collaboratori. Il tema della frivolezza di Riccardo, un privilegiato dalla nascita che sente che tutto gli è dovuto (potere, amore, sottomissione), è esteso, ampliato, problematizzato, fatto oggetto di ermeneutica teatrale, ma non in stile "regia tedesca" bensì, pur tra qualche cedimento di tono, con mano sciolta, bizzarra, provocante. La "civiltà" è un leggero strato di vernice su una realtà diversa, sulla natura selvaggia (più delta del Mississipi che Massachussets), sui corpi delle altre razze, sui loro demoni, sulla loro ribellione. Forche e macchine di tortura e infernali cavità sotterranee che inghiottono corpi; muri corrosi, dimessi e traballanti pontili da paesaggi d'acqua come in Huckberry Finn; un grande albero tropicale (è l'invenzione più bella della scenografia di Antonio Fiorentino) che in realtà si compone dei corpi aggrovigliati dei mimi, fra la scena dantesca di Pier delle Vigne e la sottolineatura che questa natura selvaggia fa tutt'uno con i dominati e non con i dominatori; figuranti in buona parte africani; i congiurati vestiti da indiani, forse pensando a quei famosi coloni che si travestivano da nativi per assaltare le navi inglesi e buttare a mare il loro carico di tè, o forse perché, per Cobelli, se non sono nativi americani senz'altro è come se lo fossero, viste le storie di usurpazione che hanno da rimproverare a Riccardo.

Come loro alter ego, l'invenzione di un Principe ribelle, con grandi piume come gli Indi Galanti di Rameau (lo statuario Diallo Mamoudou), che in silenzio li segue e ne sorveglia le mosse. E così questa che potrebbe sembrare una lettura politica, e probabilmente lo è, si orienta, di fatto, più che verso atmosfere da "teatro impegnato", verso un'affascinante bizzarria. Pensiamo ai cachinni dei congiurati che alla fine del secondo atto commentano "e che baccano sul caso strano" come se fossero degli aristocratici parigini: qui sono accompagnati da ogni sorta di larve, di demoni del luogo, di zombies; sembra persino che gli appesi alle forche risuscitino perché vogliono sapere chi è mai quella dama velata; Cobelli sfrutta con mano felice l'incongruenza fra testo e fonti, la fa diventare enigmatica e seducentissima.

Altrove c'è qualche tratto troppo marcato: Oscar vestito per il ballo come Marlene Dietrich ne L'angelo azzurro, o meglio come Helmuth Berger vestito come Marlene Dietrich ne L'angelo azzurro in La caduta degli dèi di Visconti (eh via...), forse alludendo all'omosessualità del Gustavo III storico, per intessere variazioni sul tema del rapporto con Oscar; c'è un inutile doppio mimico di Amelia che viene a più riprese imprigionato e torturato. Ma il lavoro di Cobelli sugli interpreti deve essere stato generalmente positivo, conferendo sincerità e spessore umano ai personaggi. Come spesso succede oggi è sul richiamo della messinscena che si punta e che si spende, mentre la componente musicale sembra arrancare e restare un po' a distanza. Sul podio, Donato Renzetti alterna infatti curiosamente una linea di concertazione nobile nelle intenzioni e spesso anche negli esiti (pensiamo ad esempio all'equilibrio e alla misurata esattezza di accenti del famoso terzetto "Sento l'orma dei passi spietati", e in generale ci è sembrato apprezzabile tutto il secondo atto, fino all'ottima conclusione, il già citato "E che baccano sul caso strano"), fatta talvolta di arrotondamenti e legati vecchio stile, però con troppi momenti assai più chiassosi e ciabattanti: anche l'orchestra in buca sembra più grossolana rispetto alla propria performance di un mese fa nel mozartiano Re Pastore.

Quanto al cast, esso rispecchiava un quadro generale che non riguarda soltanto il teatro di Ancona. Sta per debuttare al Metropolitan come Manrico il tenore che ha cantato qui Riccardo, Marco Berti e, con tutto che è uno dei tenori verdiani su cui oggi si punta nei grandi teatri per un auspicato ricambio o almeno rinfoltimento dei ranghi, appare evidente che in altri tempi lo avrebbero fermato su Lucia e Rigoletto, e in quei ruoli avrebbe lavorato (ne ha le capacità) per affinarsi, sulla duttilità e sulla grazia, mentre oggi gli fanno cantare Il Trovatore e Aida. Lo abbiamo sentito infatti un po' irrigidito e di meno bella vocalità rispetto all'Attila fiorentino di due anni fa in cui fu un ottimo Foresto; sfumava così anche troppo spesso quel che di capriccioso, di aristocratico, anche nella passione, che costituisce l'anima del personaggio di Riccardo ("La rivedrà nell'estasi", "Dì tu se fedele", "Ma se m'è forza perderti").

Discorso quasi analogo per l'Amelia di Tatiana Serjan che, a rigore, avrebbe dovuto essere una Violetta o una Fiordiligi dai centri e dal registro grave fascinosamente scuretti, e invece si sta lanciando un po' a suo rischio (anche con l'incoraggiamento di grandi direttori come Riccardo Muti) come soprano lirico-drammatico da grandi frasi e di grande spinta ciò che, a rigore, non è. Ma nel complesso, la soavità e l'elegante intensità di accenti che, almeno per ora, sa mantenere per un ruolo un po' a mezza strada, come quello dolente e affascinante di Amelia, propiziano un buon risultato e, infatti, i suoi momenti solistici ("Ecco l'orrido campo", "Morrò, ma prima in grazia") sono stati i più applauditi dal pubblico del Teatro delle Muse. Un po' opaco all'inizio dell'opera, Stefano Antonucci ha però trovato il modo di cantare con generosità e anche con una certa nobiltà il suo grande momento, "Eri tu che macchiavi quell'anima", mentre la vocalità fosca e velleitaria e l'improponibile oscurità di dizione hanno mortificato l'Ulrica di Trichina Vaughn, come non sempre erano argentine e piacevoli (anche se molto sicure) le piccanti puntature di Anna Skibinsky; bravi e simpatici i due congiurati Samuel e Tom, Carlo Di Cristoforo e Danilo Serraiocco, a posto anche Alessandro Battiato nel ruolo di Silvano. Vogliamo infine lodare il meraviglioso abito da ballo anni Cinquanta, ideato da Alessandro Ciammarughi per Amelia nell'ultimo quadro. Cordiale successo.

Un ballo in maschera
melodramma in tre atti


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