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L'amore al tempo dei lager

di Elisabetta Torselli
  Fidelio
Data di pubblicazione su web 14/05/2003  
Il richiamo luminoso della libertà, l'amore a cui il cielo non farà mancare le forze per opporsi alla violenza. Ma il tempo del Fidelio che ha inaugurato al Teatro Comunale di Firenze la sessantaseiesima edizione del Maggio Musicale Fiorentino è il Novecento, è oggi, e oggi sappiamo con certezza ciò che Beethoven si sarebbe tenacemente rifiutato di credere, sappiamo che la storia è "uno scandalo che dura da diecimila anni" e che non sembra destinato a finire.

Nella nuda scena unica di Radu Boruzescu, nient'altro che tre altissime pareti, scabre superfici e vuoti valorizzati come in un Piranesi moderno da un crudo e bellissimo giuoco di luci di taglio e dall'alto, Robert Carsen non può che inscenare, all'inizio, una serie di piccole gag e controscene al dramma della banalità del male, le inservienti che riordinano le divise carcerarie, Jaquino e Marzelline e Rocco, il primo più grossolano del solito nel suo corteggiamento, lei molto ausiliaria SS, Rocco attaccato alla fiaschetta: qui non funzionerebbero i toni da commedia degli equivoci amorosi che Beethoven aveva in mente in questa prima sequenza non a caso costellata di notazioni mozartiane - per partire con un piede di moderazione e far risaltare così, per contrasto, l'eroica temperie dell'eroina Leonore.

fidelio


Ma anche all'interno di questa regia, che nel corso dello spettacolo si rivela sempre più generosamente compromessa, sporca di realtà, invadente e non senza difetti da cui però davvero non riusciamo a prendere le distanze, Carsen dimostra di sentire la musica e di saper fare un teatro preciso ed elegante: nel rilevare le delicate e ambigue trame di affetti del grande quartetto in canone del primo atto Mir ist so wunderbar, nell'affaccendato far ordine delle guardie che commenta la proterva marcetta di Pizarro con molta originalità, molto senso dell'invenzione registica.

Che la pura, assoluta e rettilinea fede beethoveniana nella libertà si mescoli a notazioni più grottesche, ambigue, amare, lo si è già capito, e alla fine del primo atto la regia del coro dei prigionieri, con il lividore della rappresentazione e quegli sguardi che si alzano verso la luce come a qualcosa che non riconoscono più, sembra voler incrinare le pie e fidenti tonalità del celebre inno O welche Lust con la sua teologia massonica della luce, ingenua ma così profondamente sentita da Beethoven.

Ma è il finale a scaraventarci direttamente nell'attualità quando dalla platea fanno irruzione coro e figuranti muniti di caschi e baschi azzurri, pacchi di aiuti umanitari e soprattutto tante telecamere, fari e giraffe per riprendere in diretta l'arrivo di Don Fernando, l'arresto di Pizarro e la liberazione di Florestano. Un'invasione di campo da parte della realtà che per qualcuno avrà anche saputo di stantio, di baracconesco: ma il punto è che quando questa folla CNN-Onu-Ong lascia la scena, restano brevemente soli Leonora e Florestano e, lungo le pareti del lager, i prigionieri, ancora accasciati, ancora prigionieri, mentre le divise carcerarie a strisce, di nuovo ammucchiate al centro, aspettano altri corpi.
Chiaro, vero ? Ci sembra di sì, ci sembra che valesse la pena di correre tutti i rischi di una rilettura che trasforma il limpido apologo beethoveniano in qualcos'altro. Rischi e ingombri anche pesanti: la banalità, ahinoi, del bene, o meglio di ciò che a Bene si atteggia, denunciata nel simbolo elementare della candela di Leonora che poi accende, nel finale, le candele dei "buoni"; gli atteggiamenti un po' rivistaioli del coro che nella ribalta finale prende l'imbeccata dai due sposi-eroi.

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Ma, ripetiamo, non è una messinscena in cui vien fatto di pesare con il bilancino cosa è giusto e cosa sbagliato. Infatti l'effetto sul pubblico è stato sorprendente. Ci aspettavamo la consueta bordata di fischi che saluta abitualmente al Comunale le regie d'opera "non tradizionali": invece niente, anzi, molti, molti applausi anche quando sono usciti Carsen e i suoi collaboratori.

Meno risolto l'aspetto musicale, anche se a conti fatti Beethoven - al contrario di Verdi - funziona sempre, nel senso che gli eventuali limiti dell'esecuzione non appannano la forza comunicativa e drammatica di una partitura sulla cui incontaminata e sublime bellezza non stiamo qui a spendere altre parole. L'estone Paavo Jaervi sembra un bravo direttore, dotato di una formazione e di un modo di pensare la musica ancora essenzialmente sinfonici.

Certo che per debuttare nell'opera Fidelio è meglio che Otello tanto più che l'immagine complessiva che Jaervi ha di Beethoven è sostanzialmente nobile e corretta anche se un po' lasca e arrotondata. Però la direzione d'opera richiede facoltà di attenzione e di governo (soprattutto mandare insieme orchestra e palcoscenico e un moltiplicarsi di gesti per dar tutti gli attacchi e darli giusti) che ancora ci sono sembrate ad uno stadio sperimentale: questo si è riflesso anche nella patina più del solito confusa dell'orchestra, che ha dato qualche segnale di nervosismo (se poi a innervosirsi subito nel Fidelio sono i corni...).

Fra le cose positive di questa concertazione mettiamo però, e non è poco, l'esecuzione incantevole del quartetto Marzelline - Leonore - Rocco - Jaquino. Come in tutti i cast di tutti i Fideli Leonora e Florestano se la devono vedere con le idee beethoveniane sulla vocalità, che potrebbero riassumersi nel seguente motto: infischiarsene (della voce, così come della tecnica violinistica, della tecnica pianistica... di tutto ciò che metteva un'ostacolo fra la fiammeggiante idea musicale beethoveniana e la realtà), anzi peggio, pestando e sbattendo gagliardamente proprio sui "passaggi".

E così Stephen Gould e Elizabeth Whitehouse creano un Florestano e una Leonora complessivamente nobili, corretti e partecipi; né esprimiamo disappunto sul fatto che né l'uno né l'altra appartengano a quella tipologia canora wagneriana di superdotati da cui un tempo si prendevano i protagonisti del Fidelio (del resto oggi non si può più: la specie è in estinzione), perché poi il modello vocale di partenza - come dimostra la grande aria della speranza di Leonora modellata sull'aria della fedeltà di Fiordiligi in Così fan tutte - è Mozart ancorché "titanizzato". Succede però a tutti e due di rimanere strozzati dall'eccitata espressività, dalla tensione eroica verso gli acuti che Beethoven prescrive nel meraviglioso ardente slancio di luoghi come l'Allegro dell'aria di Florestano e il duetto del riconoscimento O namenlose Freude.

Piacevole e simpatica la Marzelline di Rachel Harnisch, ma la vera sorpresa era Giorgio Surian come Rocco: attore consumato oltre che cantante, è sembrato aver capito a fondo lo spirito di questa messinscena ed è stato semplicemente perfetto nel delineare l'iniziale e un po' sordida sottomissione di Rocco a Pizarro, ma anche la sua tortuosa redenzione.

Fidelio
opera in due atti op. 72


cast cast & credits
 
trama trama

 
 
 
 

 
 
 
 
 


 
 




 
 
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