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Il Giulio Cesare senza kolossal di Ronconi

di Gianni Cicali
  Giulio Cesare
Data di pubblicazione su web 19/04/2003  
La messinscena di un'opera barocca soffre, e soffrirà sempre, della distanza dalle convenzioni di ascolto del pubblico per cui fu creata. Il Giulio Cesare di Georg Friederich Händel andò in scena la prima volta al Royal Theatre a Haymarket (Londra) nel 1724. In quel teatro, nel Settecento, si avvicendarono virtuosi e virtuose di canto provenienti in gran parte dall'Italia: castrati, prime donne, specialisti dell'opera buffa. Una pletora di personaggi a volte bizzosi che facevano la gioia del pubblico londinese. Erano il prodotto di una moda, al pari di esotici cagnolini o di toilette sontuose (e costosissime) sfoggiate dalle dame del gran mondo.

Il Giulio Cesare, riscrittura di uno 'stanco' libretto veneziano del tardo Seicento eseguita da Nicola Francesco Haym, violoncellista e librettista 'rimaneggiatore' di fiducia di Händel (che gli dedica infatti un 'a solo' nell'aria di Sesto "Cara speme" interamente accompagnata dal violoncello, I atto, sc. 8) è un'opera règia in cui i personaggi maschili, secondo una consuetudine del tempo, erano interpretati da castrati, nel caso del 1724 dal Senesino e da Gaetano Berenstadt, quest'ultimo un curioso esempio di cantante intellettuale legato ai circoli massonici toscani.


giulio cesare di haendel



La messinscena contemporanea non può rendere il senso di un'opera del genere, fatta di una spessa e convenzionale rete strutturale che dava risalto ai sentimenti e soprattutto ai cantanti più pagati lasciando nel contempo al pubblico la possibilità di 'rilassarsi' tra un'aria e l'altra. Händel e il suo collaboratore sfoltirono il libretto originario in favore di una snellezza testuale che favorisse l'ascolto a spettatori che conoscevano solo poche parole di italiano. Le arie cantate dal divo castrato o dalla canterina famosa incastonavano lo spettacolo che ruotava intorno a questi momenti topici attesi dal pubblico che si distraeva allegramente nelle parti meno 'divistiche' dello show. Oggi invece si ascoltano queste opere con l'attenzione microscopica che si dedica a uno scavo archeologico: non siamo sicuri che questo giovi alla riproposta di un repertorio che fu concepito per un pubblico tutt'altro che attento. Ma tant'è. Il posto di quelle opere e di quel pubblico è stato preso da altre forme d'arte e da altri pubblici.

Le regìe d'opera che affrontano tali repertori sovrappongono al testo, come si trattasse di un trasformatore elettrico, una griglia atta a tradurre una drammaturgia lontana in qualcosa di diverso ma per noi più leggibile. In altre parole, il regista di concerto con il costumista e lo scenografo dà una lettura, un'interpretazione e una traduzione della trama e della psicologia dei personaggi (spesso stravolgendo il senso) per avvicinare ciò che è 'remoto' a un senso spettacolare contemporaneo. Un'impresa quasi impossibile che di solito ottiene il proprio scopo con mezzi antichi: lo splendore delle scenografie e dei costumi, e soprattuttto il virtuosismo dei cantanti e la bellezza della musica. In questo Ronconi è ed è stato maestro, resuscitando in forma sistematica la macchineria e gli 'effetti speciali' del barocco.




giulio cesare di haendel



Per lo spettacolo bolognese il più grande regista italiano isola e riversa il prevedibile contenuto kolossal di un'opera intitolata Giulio Cesare (che narra la vicenda egiziana del condottiero) all'interno di due enormi schermi cinematografici che mostrano, come una sòrta di collage animato (intellettualmente divertito ma purtroppo non divertente), affiches e spezzoni di film hollywoodiani o di peplum italioti: dal celebre Giulio Cesare con Marlon Brando alle varie Cleopatra: da quella con Claudette Colbert (i cui costumi di lamé sono evocati per la Cleopatra bolognese) fino al kolossal sul Tevere con la Taylor e Burton. Un bric à brac di cose di cattivo gusto e mappe 'd'epoca' che evoca tutto il ciarpame iconografico che il soggetto (Cesare, Cleopatra, il re Tolomeo suo fratello, Pompeo e compagnia bella) si porta dietro da secoli.

Migrata in forma didascalico-parodica sugli schermi la valenza 'kolossale' dell'opera, la scena (di Margherita Palli) si offre come relativamente frugale: un ampio spazio (in cui trova collocazione anche l'orchestra) incorniciato asimmetricamente dai due schermi, con colonne mobili 'geroglificizzate' e botole che si aprono per innalzare o inabissare i personaggi. Il meccanismo, affascinante e tipico degli stilemi barocco-contemporanei del regista, non ha tuttavia convinto del tutto. Il grado parodico di questa scrittura registica è apparso a volte eccessivo, specialmente nei mimi-figuranti che impersonavano schiavi, soldati e ancelle egizi cui sono state imposte movenze degne di Intolerance di Griffith che, però, oggi fanno sorridere se non imbarazzare: ragazzoni tutti muscoli di un metro e ottanta in minigonne egizie che si atteggiano in pose ridicole! Cleopatra era trasformata invece in una pupa del gangster uscita da un vaso di Pandora pabstiano (con tanto di video amatoriale softcore girato da un cameraman-scriba). Il movimento di oggetti, figuranti e personaggi non riusciva a neutralizzare una generale idea di staticità insinuando il dubbio che questa regia Ronconi l'abbia condotta più con la mano sinistra che con la destra.

Pure i costumi (di Simone Valsecchi e Gianluca Sbicca), che prevedevano per Cesare e i suoi soldati uniformi coloniali fasciste e per i cortigiani di Cleopatra e Tolomeo un look a metà strada tra una messinscena all'Arena di Verona e gli eunuchi della corte ottomana, non uscivano da una routine di lusso. Musicalmente l'opera ha la sua magia nel sapiente e convenzionale alternarsi di recitativi (relativamente brevi) e splendide arie come il duetto 'straziante' tra Sesto e Cornelia - entrambi orbati di Pompeo, padre di Sesto, marito di Cornelia e avversario 'storico' di Cesare - quel "Son nato/nata a lagrimar..." (I atto, sc. 11) che riesce ancor oggi a toccare il sentimento dell'ascoltatore; oppure "Va tacito e nascosto" (I atto, sc. 9) di Giulio Cesare, un'aria congegnata in modo tale da favorire il castrato settecentesco che l'interpretò la prima volta, consentendo la musica l'inserimento di virtuosismi improvvisati che mandavano, per un attimo, in visibilio il pubblico di allora (cosa oggi del tutto bandita forse non con ragione).

In Italia, a differenza dell'allestimento madrileno dell'opera dove le parti per i castrati erano sostenute da controtenori, i ruoli da "evirati cantori" sono affidati ai più graditi mezzosoprani. Infatti Giulio Cesare è stato interpretato da Daniela Barcellona, una mezzosoprano oramai specializzata in ruoli en travesti. Molto gradita al pubblico, la Barcellona è riuscita a imprimere al suo personaggio un tratto di virilità nelle movenze (si allena con dei pesi per dare un'impronta maschile al suo incedere) e una sicura ed efficace resa vocale. Apprezzata la Cornelia di Sara Mingardo, cui sono destinate le arie più 'lacrimose', in grado di rendere vocalmente (da autentico contralto) e scenicamente la pateticità del personaggio cui il regista conferisce un'andatura lentissima di notevole effetto. Non ha convinto a tratti Cleopatra (la brava Maria Bayo) che a volte sembrava lasciare la strada del controllo per fare sfoggio di una certa potenza vocale (un vezzo settecentesco?) e che, tuttavia, ha meritatamente conquistato il pubblico con le arie finali, specialmente nella bella, lunga e virtuosistica "Da tempeste il legno infranto" (III atto, sc. 7).

Ottimo anche il Sesto di Monica Bacelli che riusciva sia ad accordarsi perfettamente col registro 'patetico' della madre Cornelia-Sara Mingardo, sia a dare corpo alle arie del registro 'furioso-guerresco', in quest'ultime ha dato buona prova di sé anche Sergio Foresti (generale egizio Achilla). Il Tolomeo similpunk di Silva Tro Santafé ha sofferto scenicamente del non riuscito look imposto dal regista e Mirco Pilazzi (Curio) che aveva una parte di soli recitativi ha potuto ciò nonostante dare ugualmente conto di una voce bella (e oramai rara) di basso. Rinaldo Alessandrini, esperto direttore del repertorio barocco, ha condotto l'orchestra facendo attenzione a non invadere il territorio dei cantanti. Forse per la collocazione sul fondo del palcoscenico, forse per altro, il risultato è stato che a momenti l'orchestra sembrava fin troppo 'sacrificata'. Ma si deve considerare che nel 1724 Händel non disponeva, a meno di eccezioni, di un omogeneo livello d'eccellenza tra i suoi orchestrali come è ai giorni nostri e come ha l'orchestra bolognese.

Giulio Cesare
dramma per musica in tre atti


cast cast & credits
 
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una scena







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