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Roma bizantina

di Gregorio Moppi
  Francesca da Rimini
Data di pubblicazione su web 25/11/2003  
Coppia sulla scena e nella vita, Daniela Dessì e Fabio Armiliato si sono consacrati al repertorio fin de siècle. Stavolta a Roma, in un Costanzi semivuoto, recuperano Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, titolo di larga fortuna teatrale nella prima metà del secolo scorso, poi sempre meno frequentato. Tanto che oggi è quasi una rarità, con le poche registrazioni discografiche da contarsi sulle dita (primedonne di lusso, però, quali Maria Caniglia, Magda Olivero, Leyla Gencer e Raina Kabaivanska) e i ventotto anni d'assenza dal teatro della capitale, dove pure Francesca ha debuttato nel 1901. Protagonista, allora, la Duse: ma si trattava della tragedia dannunziana, lì per lì caduta perché prolissa, in seguito sfoltita e perciò più fortunata.

Zandonai da Rovereto, coetaneo di quella "Generazione dell'Ottanta" applicata alla rinascenza della musica strumentale italiana, nonché cavallo di razza, allievo di Mascagni, da cui la scuderia Ricordi si attendeva imprese degne di un novello Puccini, s'invaghì della pièce di D'Annunzio verso il 1912, quando al suo attivo aveva qualche opera non troppo memorabile: La coppa del re (da Schiller, bocciata al concorso Sonzogno 1902), L'uccellino d'oro (ricavato da una favola dei Grimm, 1907), Il grillo del focolare (da Dickens, 1908), Melenis di soggetto gladiatorio (1912). Anche grazie alla prova del soprano Tarquinia Tarquini presto moglie del compositore, era stata invece un bel successo Conchita (dalla novella La femme et le pantin di Pierre Louys, 1911), un libretto di Maurice Vaucaire e Luigi Illica pensato per Puccini. Così come, dopo la consacrazione internazionale dovuta a Francesca, lo saranno I cavalieri di Ekebù (dal romanzo Gösta Berling del premio Nobel svedese Selma Lagerlöf, 1925).


 

Daniela Dessì e Fabio Armiliato
Daniela Dessì e Fabio Armiliato


Insomma, letta Francesca da Rimini Zandonai sollecitò Tito Ricordi a farsi avanti con il poeta per ottenerne il consenso alla riduzione operistica. Il Vate tergiversò un poco, ma non poté tirarsi indietro di fronte alle 20.000 lire che gli si offrivano - contro le 3.000 per Zandonai. Naturalmente non volle sporcarsi le mani con il taglia e cuci librettistico, affidato per intero all'abilità di Ricordi. Il quale rimontò accuratamente i versi originali in modo tale da condensare l'articolata vicenda storica e amorosa dannunziana, ricca di numerose figure secondarie e di circostanze accessorie, attorno al triangolo operistico per eccellenza soprano-tenore-baritono, in questo caso memore più del sensuale fatalismo tristaniano che non della tradizione melodrammatica nostrana.

D'altra parte il testo stesso autorizza l'analogia, al principio del primo atto della riduzione operistica, quando il Giullare comincia a narrare alle ancelle di Francesca come fu che Tristano e Isotta bevvero il filtro che li avrebbe condotti a morte. E del Tristan und Isolde dovette rammentarsi Zandonai nel duetto d'amore del terzo atto. E' il momento mirabile cantato nell'Inferno dantesco - sia storia (come asseriva Boccaccio) o leggenda (come di recente sembra aver dimostrato inconfutabilmente Giovanni Rimondini, storico dei Malatesta). Paolo e Francesca leggono di Ginevra e Lancillotto, altri amanti colpevole di un amore tuttavia ineluttabile. Come la regina serra il cavaliere tra le sue braccia e lo bacia a lungo in bocca, così fanno i due cognati. La voluttà si riflette nella musica, non potendosi amplesso e orgasmo rappresentare visivamente su un palcoscenico dell'epoca. Un crescendo agogico e dinamico progressivo, sempre più fremente, sempre più intenso e affannato, l'acme raggiunto, una grande pausa, e di nuovo la musica, ma piano, come se si riprendesse poco a poco a respirare dopo l'ebbrezza suprema. Questo l'amore secondo Wagner; questo anche secondo Zandonai, seppure in formato tascabile stante l'incommensurabile differenza di statura artistica tra i due.

Caratteristiche della pièce di D'Annunzio sono l'estasi estenuata e il gusto compiaciuto per un'ambientazione decadente avviluppata in citazioni letterarie-musicali-visuali che danno vita a una miscela a forte carica erotica, a un Medioevo fatto di contrasti ossimorici, di bestialità guerriera e fragilità liliale, di efferatezze gratuite e passionalità mortifera, di esangue avvenenza femminea (quella dell'eroina eponima, ma pure quella di Paolo il Bello cui la cognata nel secondo atto dice: "Smagrato siete un poco e impallidito / anche un poco, mi sembri") e rivoltante mutilazione fisica (Gianciotto Malatesta, maritato a Francesca per motivi politici, è detto lo Sciancato, e ci si può immaginare perché; suo fratello Malatestino, poi, è privo di un occhio), di morbosità (Malatestino che uccide un prigioniero urlante dalle segrete portandone poi in scena la testa mozza ricalca una scena della Salomè di Oscar Wilde) e trasporto religioso (il Padre nostro recitato da Francesca sembra un'eco dell'Ave Maria di Boito-Verdi nell'Otello).

La versificazione sinuosa e sensuale risuona di un'armonia preziosa, già di per sé musicalissima, che paradossalmente l'intonazione operistica estingue invece di esaltare, dimostrando una volta di più che la musica per far bene il suo mestiere ha bisogno di libretti veri, funzionali, spicci, scabri, tagliati con l'accetta, e soprattutto meno musicali della musica che li dovrà rivestire. Altrimenti si rischia, come Zandonai, di perdere la battaglia con il librettista. Anche perché la sua Francesca, nonostante una certa inclinazione alla modalità medievale e all'esornativo pantomimico e coreutico, si presenta meno arcaizzante e floreale di quanto non ci aspetterebbe dalla lettura del 'libretto'. E' una partitura di sentimenti e di atmosfere più che di caratteri, un delicato esperimento di equilibrio tra affocata vocalità di stampo italiano e sottigliezze sinfoniche franco-tedesche piuttosto riuscito (eccetto che nella goffa messinscena guerresca dell'atto secondo), sebbene oggi suoni datato.




Francesca da Rimini



Forse da un'esecuzione diversa ne sarebbe potuto venir fuori tutto l'incanto timbrico. Intendiamoci, non che quella offerta dal Teatro dell'Opera sia male. Tutt'altro. Ma per capire l'opera di Zandonai probabilmente è necessario dare un'occhiata al manifesto disegnato da Giuseppe Palanti per la première torinese del 1914. Davanti a una vetrata liberty i due amanti si stringono in un abbraccio inequivocabile illuminato dai colori del fuoco e della notte. A lei, seduta davanti a un oscuro leggio goticheggiante, testa abbandonata all'indietro, sta cadendo un libro di mano. La sua silhouette è fasciata da un lunghissimo abito trapuntato in cui si perdono i contorni di Paolo (riconoscibile solo dalle mani e dai capelli) che le sta baciando voracemente il seno nudo. Sul palco Dessì e Armiliato rendono questa immagine alla perfezione. Siamo al duetto d'amore del terzo atto. Complice il libro, seduti sul letto, si baciano un po' da lontano. Poi si avvicinano, lui la stringe scivolando pian piano sul pavimento da dove continua ad accarezzarla e a baciarla con baci veri.

Innegabile che l'alto grado di naturalezza della scena sia dovuto all'intima confidenza tra i due cantanti, per figura e credibilità protagonisti ideali dell'opera. Ancora più suggestivi sarebbero stati se avessero caratterizzato le loro parti secondo un'estetica liberty e non verista, se nel canto ci fossero stati più sottintesi, più chiaroscuri (ma più zone d'ombra che di luce), maggior abbandono estatico. Invece spesso si scordano che qui siamo nel mondo di D'Annunzio e non in quello di Mascagni, Giordano o Cilea. Lo stesso vale per Donato Renzetti, direttore sanguigno e poco interessato al colore: comunque la sua professionalità permette a palcoscenico e buca di funzionare al meglio. Ciononostante non si può negare a Dessì una sapienza teatrale di prim'ordine nel delineare una Francesca carnale e seducente, volitiva, ardente di passione, consapevole delle possibilità della propria voce di cui sfrutta ogni risonanza espressiva in ogni registro. Anche Armiliato si muove con scioltezza, seppure nei limiti di una tecnica imperfetta mascherata con molta astuzia.

Alberto Mastromarino è un Gianciotto brutale, selvaggio, animalesco, canto e dizione nettissimi. Tra gli altri vanno citati il torvo Malatestino di Ludovit Ludha e il Giullare di Domenico Colaianni, mentre il parco voci femminile di psuedofanciulle-fiore non è sempre di livello apprezzabile. Grazie ai costumi di ispirazione preraffaellita di Odette Nicoletti, alle candide coreografie di Marta Ferri, a Mauro Carosi che inquadra l'azione entro una scatola scenica che accoglie ora tendaggi spruzzati di fiori, ora cancellate in ferro battuto, arazzi, cuscini e accessori come andavano di moda cent'anni fa, Alberto Fassini progetta un delicato spettacolo in clima art nouveau perfettamente rispondente al senso della partitura. Emblematico il finale del primo atto non privo di intenzionale cattivo gusto. La scena si sviluppa in verticale sovrapponendo diverse rampe di scale. Paolo emerge dal fondo in groppa a un cavallo, a mo' di bronzeo monumento equestre dominante il palcoscenico da un'altezza che pare vertiginosa. Francesca coglie una rosa; accompagnata da un'ampia meditazione sinfonica con violoncello concertante percorre con fare regale quella scalinata infinita per porgergliela. Galeotta fu la rosa.


Francesca da Rimini
opera in quattro atti


cast cast & credits
 
trama trama

 

 


 
 


 

Francesca da Rimini
 
 
 
 
 
 
 
 



 

 
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