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Angela, trà verità e melodramma

di Paola Valentini
  Angela di Roberta Torre
Data di pubblicazione su web 01/01/2002  
Il terzo lungometraggio della regista milanese Roberta Torre, Angela, presentato al Festival di Cannes nella sezione "Quinzaine des realizateurs" ma uscito solo in autunno nelle sale italiane, presenta una forte rottura rispetto alle immagini cui l'autrice milanese aveva abituato con Tano da morire (1997) e Sud Side Story (1998). Alla superficie si sostituisce, infatti, la profondità, alla lucida e riflettente realtà dei film precedenti, un impasto visivo e opaco, così come il pop, spesso invocato per le sue prime opere, cede il passo a un certo impressionismo e a un'immagine che si mangia i contorni e sfrangia la consistenza del reale.


Angela di Roberta Torre
 
 
Angela (nella realtà delle cronache giudiziarie, la moglie del boss Molina) gestisce dal suo negozio di calzature il traffico di droga del marito, raccogliendo gli ordini, smistando e occultando le dosi nelle scatole di scarpe e, insospettabile in quanto donna in una Sicilia sempre dominata da uomini, attraversando il mercato palermitano di Ballarò per fare di persona le consegne. Il tran tran quotidiano è tuttavia spezzato dall'arrivo del giovane Masino, rientrato velocemente dal Nord, in seguito a "questioni sentimentali", e che il marito Saro accoglie in famiglia. Tra Angela e Masino esploderà una passione che, loro malgrado, aiuterà la polizia a smascherare il traffico illecito. La prigione sarà per tutti una fase transitoria, ormai l'equilibrio sentimentale sarà spezzato. Angela, ripudiata dal marito (intanto assolto), passerà i suoi giorni al porto aspettando invano l'amante, anche lui assolto ma ambiguamente scomparso, eliminato o forse solo vigliaccamente, ancora una volta, scappato.
 
 
Angela di Roberta Torre
 
 
Nonostante la diversità dell'impatto drammatico di questo film, gli ingredienti sembrano essere sempre i medesimi e rinnovano l'impressione di una regista che, come molti autori ultimamente, decide di concentrarsi su un tema/soggetto ricorrente e particolare per riproporlo, come in un esercizio di stile alla Queneau, in mille variazioni.

Roberta Torre, infatti, torna a indagare l'idea di sicilianità e il suo assommare maschera e persona, a giocare tra fiction e storia vera, tra realismo e generi cinematografici. Oppure ancora una volta si misura con la forte rilevanza espressiva della fotografia, che in questo film richiama, per la sintonia mostrata con la regia ma anche per una certa capacità di plasmare letteralmente la realtà a colpi di luce e di colore, il sodalizio del fotografo Luca Bigazzi e del regista Mario Martone in L'amore molesto (1995): storia di sud e storia di donna con cui Angela condivide non pochi tratti in comune.

Angela stabilisce in particolare un forte legame con Tano da morire, pure modellato su una storia vera e sempre affidato alla fotografia di Daniele Ciprì. Rispetto a quell'opera "semplicemente" cambia il quadro di riferimento: così, mentre nella storia finzionale del vero Tano Guarrasi, il filtro usato era il musical, qui la finta Angela Molina si cala nel genere del melodramma o meglio nell'impianto visivo del melodramma coniugato con l'afflato realistico, o quanto meno sottrattivo, della recitazione. Là la realtà si disfaceva nelle coreografie e nella stilizzazione del canto, qui la realtà è superata e dissolta nei modi di ripresa. La profondità del film è costruita innanzitutto da una macchina da presa che fatica a stare dietro al reale, che aggiusta spesso il tiro: sempre trascinata nel movimento, troppo vicina e al limite dello sfocato, spesso sbilanciata verso il fuori campo, e infine impastata di colori che provocano letture concorrenziali. È una macchina da presa instabile e irrequieta che, assommando camere a mano e panoramiche tortuose, avvinghia i personaggi e ne segna il destino senza tuttavia riuscire mai a catturarne del tutto la problematicità. E nello stesso tempo la profondità del film si costruisce - altro carattere tipico del melodramma cinematografico - sul tempo passato: non c'è presente né tanto meno futuro e il film sviluppa narrativamente un racconto ad incastro, fatto di flashback visivi e sonori (che aumentano con l'acme drammatica del film), in un impasto di ricordi e ricostruzioni che getta i personaggi nel già accaduto o meglio nel compiuto e nel già scritto, e segna indelebilmente il destino degli eroi del melodramma.

È tuttavia questo il momento meno riuscito del film: rispetto al trascorrere continuo dell'immagine nella prima parte, seguendo le traiettorie della protagonista attraverso il negozio o per le strade della città e nello stesso tempo invitando alla lettura in profondità dell'immagine, assecondando le sue infinite sollecitazioni luministiche e cromatiche (dalle camicette di seta colorate e trasparenti, ai chiaroscuri del negozio e del retrobottega, alle luci e i colori di Ballarò), il prevalere del montaggio della seconda parte del film, in cui si sviluppa la storia di passione, e la sobria successione di piani del finale, assumono un che di schematico e di semplicistico (accompagnati da una trasformazione visiva della protagonista, che smette belletti, tacchi e camicette di seta per un'apparenza dimessa, francamente ben banale).

Certo anche l'ultima parte del film non manca di momenti di forte intensità, come quel contatto diretto, tattile e visivo (separati o forse protetti da un vetro), che viene finalmente stabilito tra gli esseri umani, al di là dei ruoli e delle maschere di cui sono prigionieri, nelle due scene speculari dell'incontro al parlatorio con il marito e del gioco di sguardi dalla cabina telefonica alla finestra dell'amato. Tuttavia, rispetto alla suggestiva mescolanza di realismo e melodramma, di rarefazione e barocchismo, presente tanto nell'impatto visivo dell'immagine quanto nella recitazione dei personaggi, nella seconda parte di Angela l'amore e la tragedia sembrano indulgere alla vacuità dello stereotipo: come se il personaggio un po' troppo semplicisticamente non potesse sottrarsi al suo destino, esattamente come quel Masino definito subito "o pescecane" per la prerogativa di insidiare le femmine dei boss.


Angela. Da una storia vera
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