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Meglio morti che disoccupati

di Marco Luceri
  Il posto dell'anima
Data di pubblicazione su web 24/05/2003  

Sfida difficile quella intrapresa da Riccardo Milani nel raccontare il mondo delle fabbriche e la vita degli operai nell'era di ''Inglese Internet Impresa''. Fuori dagli slogan, verrebbe da dire: operai questi sconosciuti. Era infatti da tempo che il cinema italiano aveva dimenticato il mondo operaio e le sue dinamiche sociali, le sue esigenze, i suoi sviluppi. Forse perché affrontare il tema ha sempre rappresentato (soprattutto in Italia) un terreno insidioso, che spesso comporta precise prese di posizione ideologiche o politiche. Questo però non ha impedito il sorgere, soprattutto a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta, di un cinema politico legato alle lotte operaie, prese spesso, da registi militanti e non, come filtro attraverso cui riflettere sui mali ed i cambiamenti del Belpaese.
Da I compagni e La classe operaia va in paradiso fino a Non mi basta mai i nostri cineasti hanno sempre avuto, dunque, un occhio di riguardo verso questo mondo, anche se con il passare degli anni sono venute meno quelle ampie, radicali (utopiche?) prospettive di cambiamento sociale e le storie messe in scena diventavano sempre più intime: non più dalla Storia agli Operai, ma dagli Operai alla Storia.


Il posto dell'anima
Il posto dell'anima


Il film di Milani si ferma a metà strada tra questi due modi di intendere il problema. Realizzato in anni come i nostri, che vedono un nuovo, inedito inasprirsi dello scontro sociale (il lavoro precario, la crisi della Fiat, la battaglia sindacale e politica sull'articolo 18, i licenziamenti facili dovuti alla nuova era della globalizzazione selvaggia ecc.), Il posto dell'anima è la storia collettiva di tre operai che si trovano a lottare contro una gigantesca multinazionale americana intenta a chiudere una delle sue piccole fabbriche di provincia in Italia.
Semplicità, ironia, toni sospesi tra la tragedia e la farsa sono le cifre che caratterizzano la diversità con cui i tre cercano di rispondere ad un problema che entra improvvisamente nelle loro vite come un uragano. Già, perché qui non si tratta solo di un problema collettivo, ma anche strettamente privato. In questo senso i quattro protagonisti ben rappresentano il travaglio esterno ed interno che coinvolge per intero la vita di chi si trova da un giorno all'altro senza lavoro. Tutto il film allora viene a svilupparsi seguendo questo doppio binario narrativo: le reazioni e le scelte private s'intrecciano inevitabilmente con la lotta collettiva, e sarà in questo intrecciarsi di sentimenti, passioni, speranze e disillusioni che la vita dei tre cambierà irrimediabilmente.
Soli protagonisti del proprio destino, questi operai scendono in piazza, dopo gli iniziali dubbi, portando avanti anche forme di lotta poco convenzionali, addirittura a tratti antisindacali, come la scelta estrema di incatenarsi o il bivacco permanente di fronte all'entrata della fabbrica occupata. Si rivedono allora i banchetti per la raccolta delle firme, la solidarietà portata agli operai dai concittadini premurosi, vecchi e nuovi simboli di rivoluzione; ma tutto ben presto diventa show: la TV entra prepotentemente a raccontare, ad amplificare in maniera diretta questa realtà di disagio sociale (da manuale, a questo proposito, l'ironico cameo di Sandro Ruotolo nei panni di se stesso). Il racconto televisivo apre i margini dell'incertezza, sbattendo in prima pagina le fratture, i dissapori e le inevitabili divergenze di opinione dei protagonisti piuttosto che la sostanza della lotta da loro portata avanti. In questo quadro la politica appare distante, lontana, quasi assente. Ciò che più viene alla ribalta, in una situazione così dolorosa, è proprio la mancanza di bandiere di partito: le sole che spuntano, sparute anche quelle, sono solo quelle rosse, bianche e verdi dei sindacati confederali, e nient'altro.


Il posto dell'anima
Il posto dell'anima


L'intento dissacratorio colpisce proprio la politica. E' trattato in maniera farsesca, ad esempio, il tentativo dei tre di rivolgere una richiesta d'aiuto alle nuove istituzioni politiche, come il Parlamento Europeo. Il loro viaggio a Bruxelles si concluderà con un beffardo nulla di fatto: saranno ricevuti da un'anonima funzionaria che spiegherà loro (in francese) che già tutto è stato deciso e che il loro personale intervento non era poi così necessario. Oltre il danno, anche la beffa, insomma. Ritratto impietosamente anche il consiglio comunale del piccolo paesino abruzzese: un vero e proprio bivacco d'ignoranti opportunisti, che scambiano il testo di Something about England dei Clash per uno sfoggio di padronanza linguistica dell'inglese da parte del coraggioso Antonio.
Non proprio politicamente corretto Milani, insomma. Riesce bene a mostrare la solitudine e la marginalità che non solo la politica, ma la società in generale riserva oggi all'intera classe operaia: marginalizzata, dimenticata, piegata alle leggi del mercato globale, resa sempre più impotente dalla scarsezza degli strumenti di lotta. Funziona bene dall'inizio alla fine anche l'altra storia, quella della lotta privata, più intima, che coinvolge i suoi protagonisti nelle loro relazioni con gli ambienti propri delle loro vite. Salvatore (Michele Placido) appare quello più determinato, una sorta di ortodosso rivoluzionario, messosi subito a capo della rivolta, tanto coerente con gli ideali di lotta da sembrare fuori tempo e fuori luogo, perennemente in conflitto con il figlio, a volte inconsapevole censore disadattato, un'altra generazione insomma. Sarà l'unico dei tre però a credere fino in fondo nella propria personale lotta, pur ammettendo di avere, come tutti, scomodi scheletri nell'armadio.
Mario (Claudio Santamaria), irascibile quanto sincero, cercherà di sopperire all'indigenza inventandosi una sorta di pastificio clandestino plurifamiliare: è, tra i tre, la voce dell'italica arte di arrangiarsi, che concilia la lotta con l'esigenza di portare il pane a casa. Milani e lo sceneggiatore Domenico Starnone ne fanno un personaggio a cui guardare con affetto e comprensione. Su tutto però spicca l'affettuosa storia d'amore tra lo stralunato, sincero ed ingenuo Antonio (uno straordinario Silvio Orlando) e la giovane, apprensiva Nina (Paola Cortellesi).


Paola Cortellesi ne Il posto dell'anima
Paola Cortellesi ne Il posto dell'anima


Una coppia che vive il disagio della lontananza (Nina infatti lavora in uno studio aziendale di Milano) e della diversità di vedute di due mondi distanti per età, cultura, ambiente. Bravo Milani a non cadere nel facile schematismo, mostrandoci le luci e le ombre del rapporto attraverso la semplicità, la generosità, che traspare dalle loro difficoltà, dalle loro scelte e dalla loro umanità.
Sì, perché questi sono personaggi di vera umanità, che sanno ridere con la stessa inconsapevole sincerità con cui sanno piangere, uomini e donne che la vita ha messo alla prova e trasformato involontariamente in piccoli eroi fragili ed insicuri. Alla fine restano i sentimenti almeno quanto resta l'amarezza. Il finale tragico, che mescola l'ultimo commovente sorriso di Antonio (ricoverato in un'anonima stanza d'ospedale per un cancro contratto durante gli anni di lavoro in fabbrica) con le lacrime compostissime di Nina, chiude il cerchio, con la morte di uno di questi comuni uomini di oggi, su un'avventura inconsapevolmente vissuta con la stessa amarezza e con lo stesso sapore di sfida con cui era iniziata. E' in questo che trova giustificazione, in maniera sinistra, proprio quella frase che Milani stesso ha messo come epigrafe al film: ''meglio morti che disoccupati''.




Il posto dell'anima
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