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Shooting a Columbine

Fabio Tasso
  Alex Frost
Data di pubblicazione su web 10/10/2003  
Accade di rado che un film conquisti, in occasione di un festival, il premio principale e quello per la miglior regia. Questo privilegio è stato attribuito al Festival di Cannes 2003 a Elephant di Gus Van Sant, regista che torna a riflettere sulle inquietudini delle giovani generazioni dopo film come Drugstore Cowboy e Belli e dannati, che avevano segnato la prima parte della sua produzione.

Elephant (il titolo deriva da una parabola secondo la quale alcuni ciechi esaminano parti diverse di un elefante, ma nessuno riesce a riconoscerlo come tale - metafora dell'impossibilità per gli adulti di comprendere il mondo giovanile) non affronta un tema nuovo. Il tema, anzi, è lo stesso del fortunato Bowling a Columbine di Michael Moore; il film è infatti ispirato alla strage che, alcuni anni fa, ebbe luogo in una scuola statunitense: due adolescenti, armati di tutto punto, irruppero nel loro liceo e uccisero una dozzina di persone tra insegnanti e compagni di scuola. Perché Van Sant abbia scelto proprio questo tema non è dato sapere. Esso dimostra però, se mai ve ne fosse bisogno, il ruolo e la pericolosità che le armi da fuoco hanno assunto nella società americana. Quando il cinema comincia a interrogarsi su un problema, significa che esso è davvero impellente, e richiederebbe una soluzione immediata.
Alicia Miles e John Robinson
Alicia Miles e John Robinson


Ma ciò che è più interessante, e che probabilmente ha motivato la scelta della giuria di Cannes, è il modo in cui questo film affronta il tema delle armi da fuoco. Elephant non è un film come gli altri. L'ovvietà dell'affermazione può essere smentita considerando che è raro, davvero raro, assistere a un film che presenti, contemporaneamente, una profonda complessità concettuale e di intenti mostrata attraverso una semplicità tecnica quasi elementare, da saggio di fine corso accademico.

Van Sant lavora prima di tutto sulla scansione temporale (ma forse bisognerebbe dire sulla "disarticolazione temporale"), creando un puzzle di scene che si accavallano e si intersecano come in un gioco a incastri. Intervallate da brevi didascalie che illustrano i nomi dei personaggi, le scene (spesso lunghi piani sequenza, girati con grande maestria) mostrano le medesime situazioni da differenti punti di vista. Ciò che in un primo tempo si vede come se a viverlo fosse un determinato personaggio, in un secondo momento (e senza che ci sia una precisa consequenzialità a regolare questa successione) lo si vede da un punto di vista completamente ribaltato. Il risultato è una frantumazione dell'impressione di realtà, uno scardinamento scientemente programmato del continuum spazio-temporale che allontana irrimediabilmente ogni possibilità di creare un flusso in cui la fabula scorra in modo univoco, senza intoppi.

Lasciano stupefatti un tale rigore, una tale evidente consapevolezza dei propri mezzi e l'abilità dimostrata da Van Sant nel gestire con equilibrio tecnica e attori e amalgamarli insieme. È come se il regista volesse rispettare le regole autoimposte di un personalissimo "dogma" (come il Dogma 95 di Lars Von Trier e Thomas Vinterberg). Elephant, infatti, è quasi un monumento alla semplificazione e all'essenzialità della regia: macchina a mano, artifici scenografici pressoché nulli, veri studenti liceali impiegati come attori, troupe ridotta al minimo indispensabile e riprese effettuate in soli ventuno giorni. Gli elementi narrativi sono così ridotti, e così poco importanti nell'economia del film, che sembra quasi di assistere a un documentario sulla vita degli studenti in un qualsiasi liceo americano.


Alex Frost, Danny Wolf e Gus Va Sant sul set del film
Alex Frost, Danny Wolf e Gus Va Sant sul set del film


Per gran parte del film, oltretutto, succede poco o nulla. Gli studenti sono sì seguiti in ogni loro mossa, e quasi sempre ripresi alle spalle, con un teleobiettivo esasperato che mantiene a fuoco soltanto loro sfocando tutto quanto sta intorno, isolandoli dalla realtà con una forza espressiva impressionante, ma non fanno nulla di particolare. Vivono l'ordinaria esistenza di un comune giorno scolastico; si muovono per i corridoi del liceo senza che nulla, davvero, lasci presagire alcunché di anormale; parlano del più e del meno, di loro stessi, della loro vita. Come il più maniacale degli entomologi, Van Sant studia movimenti, atteggiamenti, sguardi con cura estrema, minuziosa, asfissiante; imprigiona gli studenti nei propri corpi e nello spazio ristretto dell'inquadratura, soffocandoli e soffocando, al contempo, la possibilità dello spettatore di uscirne, di guardare cosa c'è al di là. Van Sant mostra ma non giudica, è stato detto; è certamente esatto, ma si potrebbe dire di più: lascia che i personaggi si muovano liberamente nello spazio, senza interferire con i loro movimenti, limitandosi a incalzarli un metro appena dietro di loro. Forse proprio perché non è stata in qualche modo "preparata", non c'è stata cioè una progressione costante verso di essa, appare ancora più disturbante e sconvolgente la parte finale. I pochi intermezzi mostrati fino a quel momento, in cui si vedono i due ragazzi assassini guardare in televisione scene di marce naziste, sparare contro cataste di legno, entrare nella scuola in tute mimetiche non sono sufficienti ad attenuare la terrificante esplosione di violenza che caratterizza gli ultimi minuti del film. Tutto accade all'improvviso, un sussulto dopo l'altro, uno sparo lacerante dopo l'altro. Ma, ancora una volta dimostrando grande intelligenza e lucidità, Van Sant mostra pochissimo di quello che accade. Si sofferma sui volti, soprattutto, come se essi soli bastassero a contenere la cieca follia di gesti senza senso, che si susseguono in una coazione a ripetere che diventa, di minuto in minuto, sempre più esasperante. Non c'è spiegazione, non ci sono ragioni. C'è soltanto un microcosmo squassato dall'odio e da una spietata ansia di distruzione e annullamento. Alla fine si esce sgomenti, muti e impassibili da un film che tronca se stesso seccamente, in maniera netta, ma lasciando ben intatta dietro di sé una vibrante e incancellabile sequenza di corpi, cadaveri, sangue, il cupo viaggio dentro una schizofrenia ossessiva e perturbata. Nulla di cui ci si possa liberare con comoda facilità.


Elephant
cast cast & credits
 

Elias McConnell
Elias McConnell




 
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