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La solita storia

di Roberto Fedi
  Storia di guerra e d'amicizia
Data di pubblicazione su web 15/12/2002  
All'inizio sembra che si dovesse intitolare Sciuscià; poi il ripensamento, e il ripiegamento su un titolo meno nobile, Storia di guerra e d'amicizia: non tanto - si dice - per impedire un affronto a Vittorio De Sica, regista del grande film omonimo (1946), ma per evitare possibili evocazioni dello spettro di Santoro, che un secolo fa (ricordate?) conduceva un programma che si chiamava così - quello sì offensivo della memoria di De Sica. Così il titolo originale è diventato un sottotitolo, e scritto in inglese, onde evitare equivoci.

Hanno fatto bene. Il film in quattro puntate (la prima domenica 15 dicembre, ore 20.45, Rai1: di questa ci occupiamo qui) è un concentrato di tutto quello che tutti, nessuno escluso, ci siamo sempre immaginati della guerra: paura, bombardamenti, fughe, miseria, tedeschi cattivissimi, soldati sbandati, partigiani; e naturalmente bambini, che non solo fanno sempre audience - come suol dirsi - ma sembra che ormai siano ineliminabili dai film drammatici; anzi, più gli eventi narrati sono pericolosi, tragici, da adulti insomma, più i bambini ci sono di mezzo. Nel film di De Sica, alla cui memoria chiediamo subito scusa per averlo tirato dentro in questo caravanserraglio, i bambini erano lo specchio di una Storia impietosa e omicida, e rappresentavano l'estrema offesa dell'infamia all'innocenza perduta; qui, servono solo a far andare avanti l'azione, sono gli interpreti di un improbabile fumettone dove si spara. E, soprattutto, non si capisce come faccia un film a durare per quattro puntate, di circa due ore ciascuna. Neanche fosse Guerra e pace.

La storia è degna di De Amicis (e questo sarebbe un complimento, intendiamoci): un bambino, separato dai genitori che sono stati fatti prigionieri dai tedeschi e portati a Roma dopo l'8 settembre, parte dalla provincia di Napoli per ricercarli. Per strada incontra un'altra bambina, orfana, e altri personaggi. Nel frattempo, il fronte sta salendo con gli americani verso nord. Ora, 'vedere le cose dal punto di vista dei bambini' è una scelta stilistica, ovviamente, non solo tematica. Significa abbassare il livello narrativo, forse anche dare alle cose una sfumatura fantastica, favolosa, attonita. I fratelli Taviani ci riuscirono in alcune scene del loro La notte di San Lorenzo (1982). Altrimenti, siamo semplicemente alla banale riproduzione di stenti, sparatorie, fughe, miseria, dolore, spavento, insomma la guerra da che mondo è mondo, con in mezzo invece che due adulti (si pensi a Tutti a casa, di Luigi Comencini con Alberto Sordi e Serge Reggiani, 1960) due infanti. Stop. Capirai che novità.

Inutile dire che questo è ciò che fa il regista di questa ennesima Storia. E siccome la trama, così com'era, dev'essere sembrata troppo semplice (la ricerca di qualcuno che non si sa dove sia: e pensare che è su questa base - in termine tecnico: inchiesta - che si fondano quasi tutti i più grandi romanzi d'avventure del mondo da quando letteratura è letteratura), allora si è pensato di renderla più appetibile. E così al bambino, che avendo trovato per caso una bella scatola con lucido da scarpe e tutto quel che serve per la bisogna (in una casa colonica diroccata sulle montagne!) fa lo sciuscià, viene affidata dagli americani anche una delicata missione dietro le linee tedesche. Portare certe carte segrete a Roma: là dove hanno fallito i migliori agenti, riusciranno i bambini. A proposito di realismo.

La fiction televisiva, con rarissime eccezioni, soffre di evidente deficit di verosimiglianza, non solo nelle trame narrative. Le ricostruzioni sono ben poco attendibili: qui, l'arrivo dei paracadutisti americani (che si vedono solo quando sono a terra: farli lanciare forse costava troppo) è banale, anche drammaturgicamente; la location in qualche caso è anacronistica (ogni tanto si intravedono con chiarezza case e facciate da anni Sessanta); certi momenti della sceneggiatura sono superficiali: fra tutti, le scene in via Tasso a Roma con i tedeschi torturatori sono da operetta. Inutile dire che gli americani parlano come parlano gli americani nei film (insomma: con l'accento di Alberto Sordi quando faceva l'americano a Roma), e i tedeschi come parlano i tedeschi nelle barzellette. Ovviamente, sono cattivissimi.

Allo stesso modo tutto è banale: i dialoghi, le riflessioni sulla guerra e la pace, i rapporti fra i personaggi che dicono sempre quello che ci si aspetterebbe. Non perché le cose narrate siano di per sé sciocche, ma perché sono di seconda mano. Le abbiamo viste - meglio - in cento film sulla guerra, in cento film sui partigiani, in cento film sui tedeschi. E così questa non è fiction: è, se si potesse dire, 'rifriction', insomma rifrittura.


All'inizio sembra che si dovesse intitolare Sciuscià; poi il ripensamento, e il ripiegamento su un titolo meno nobile, Storia di guerra e d'amicizia: non tanto - si dice - per impedire un affronto a Vittorio De Sica, regista del grande film omonimo (1946), ma per evitare possibili evocazioni dello spettro di Santoro, che un secolo fa (ricordate?) conduceva un programma che si chiamava così - quello sì offensivo della memoria di De Sica. Così il titolo originale è diventato un sottotitolo, e scritto in inglese, onde evitare equivoci.

Hanno fatto bene. Il film in quattro puntate (la prima domenica 15 dicembre, ore 20.45, Rai1: di questa ci occupiamo qui) è un concentrato di tutto quello che tutti, nessuno escluso, ci siamo sempre immaginati della guerra: paura, bombardamenti, fughe, miseria, tedeschi cattivissimi, soldati sbandati, partigiani; e naturalmente bambini, che non solo fanno sempre audience - come suol dirsi - ma sembra che ormai siano ineliminabili dai film drammatici; anzi, più gli eventi narrati sono pericolosi, tragici, da adulti insomma, più i bambini ci sono di mezzo. Nel film di De Sica, alla cui memoria chiediamo subito scusa per averlo tirato dentro in questo caravanserraglio, i bambini erano lo specchio di una Storia impietosa e omicida, e rappresentavano l'estrema offesa dell'infamia all'innocenza perduta; qui, servono solo a far andare avanti l'azione, sono gli interpreti di un improbabile fumettone dove si spara. E, soprattutto, non si capisce come faccia un film a durare per quattro puntate, di circa due ore ciascuna. Neanche fosse Guerra e pace.

La storia è degna di De Amicis (e questo sarebbe un complimento, intendiamoci): un bambino, separato dai genitori che sono stati fatti prigionieri dai tedeschi e portati a Roma dopo l'8 settembre, parte dalla provincia di Napoli per ricercarli. Per strada incontra un'altra bambina, orfana, e altri personaggi. Nel frattempo, il fronte sta salendo con gli americani verso nord. Ora, 'vedere le cose dal punto di vista dei bambini' è una scelta stilistica, ovviamente, non solo tematica. Significa abbassare il livello narrativo, forse anche dare alle cose una sfumatura fantastica, favolosa, attonita. I fratelli Taviani ci riuscirono in alcune scene del loro La notte di San Lorenzo (1982). Altrimenti, siamo semplicemente alla banale riproduzione di stenti, sparatorie, fughe, miseria, dolore, spavento, insomma la guerra da che mondo è mondo, con in mezzo invece che due adulti (si pensi a Tutti a casa, di Luigi Comencini con Alberto Sordi e Serge Reggiani, 1960) due infanti. Stop. Capirai che novità.

Inutile dire che questo è ciò che fa il regista di questa ennesima Storia. E siccome la trama, così com'era, dev'essere sembrata troppo semplice (la ricerca di qualcuno che non si sa dove sia: e pensare che è su questa base - in termine tecnico: inchiesta - che si fondano quasi tutti i più grandi romanzi d'avventure del mondo da quando letteratura è letteratura), allora si è pensato di renderla più appetibile. E così al bambino, che avendo trovato per caso una bella scatola con lucido da scarpe e tutto quel che serve per la bisogna (in una casa colonica diroccata sulle montagne!) fa lo sciuscià, viene affidata dagli americani anche una delicata missione dietro le linee tedesche. Portare certe carte segrete a Roma: là dove hanno fallito i migliori agenti, riusciranno i bambini. A proposito di realismo.

La fiction televisiva, con rarissime eccezioni, soffre di evidente deficit di verosimiglianza, non solo nelle trame narrative. Le ricostruzioni sono ben poco attendibili: qui, l'arrivo dei paracadutisti americani (che si vedono solo quando sono a terra: farli lanciare forse costava troppo) è banale, anche drammaturgicamente; la location in qualche caso è anacronistica (ogni tanto si intravedono con chiarezza case e facciate da anni Sessanta); certi momenti della sceneggiatura sono superficiali: fra tutti, le scene in via Tasso a Roma con i tedeschi torturatori sono da operetta. Inutile dire che gli americani parlano come parlano gli americani nei film (insomma: con l'accento di Alberto Sordi quando faceva l'americano a Roma), e i tedeschi come parlano i tedeschi nelle barzellette. Ovviamente, sono cattivissimi.

Allo stesso modo tutto è banale: i dialoghi, le riflessioni sulla guerra e la pace, i rapporti fra i personaggi che dicono sempre quello che ci si aspetterebbe. Non perché le cose narrate siano di per sé sciocche, ma perché sono di seconda mano. Le abbiamo viste - meglio - in cento film sulla guerra, in cento film sui partigiani, in cento film sui tedeschi. E così questa non è fiction: è, se si potesse dire, 'rifriction', insomma rifrittura.



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