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Un uomo, una donna (e il destino)

di Marco Luceri
  last life in the universe
Data di pubblicazione su web 30/08/2003  

Capita molto spesso, soprattutto alla Mostra di Venezia, che le sezioni collaterali offrano un panorama filmico molto interessante, con opere di altissimo livello sia per la perfetta concatenazione drammatica che per l'abilità tecnica degli autori. E' il caso di Last Life in the Universe, presentato nella sezione Controcorrente, del regista thaylandese Ratanaruang, semisconosciuto in Italia, eppure giovane autore di spessore (il suo secondo film 6ixtynin9 nel 1999 ha vinto numerosi festival e Mon-Rak transistor è stato selezionato a Cannes nel 2002).

Il film narra la storia di Kenji, un giovane bibliotecario giapponese che vive a Bangkok, ossessionato dall'idea dell'ordine domestico, che più volte tenta di suicidarsi nei modi più diversi. Un giorno uccide in maniera del tutto casuale un membro degli Yakuza (la criminalità organizzata giapponese) che minaccia la vita di suo fratello; durante la stessa notte Noi, una giovane tailandese, che vive nella città costiera di Pattaya, uccide, anche lei accidentalmente, la sorella; questo triste destino che accomuna i due giovani li spinge a tentare, nella loro evidentissima diversità, una convivenza che possa ridare loro la speranza di ritrovare l'amore e di ricostruire una nuova vita.


 

Come già successo in riuscitissimi film recenti che arrivano dall'Estremo Oriente come Dolls, Oasis e In the mood for love, anche Last Life in the Universe gioca tutta la sua sostanza filmica su un rapporto tra un uomo ed una donna travolti dal destino, accomunati da una ricerca che il fatalismo della vita ha contribuito ad avviare, in un percorso che dal dolore iniziale conduce verso una redenzione sofferta e mai indolore. Si potrebbe tentare addirittura di pensare a questi quattro film come ad un'immaginaria tetralogia dei sentimenti, esemplare di una tendenza ormai costante del cinema asiatico che in virtù di questa tematica diventa sempre più europeo, con la coscienza di dover conservare però tutte le maggiori peculiarità ed atmosfere del cinema del Sol Levante.

Questo film parla essenzialmente di tracce. Le morti accidentali dei due fratelli, che sono il motore dell'azione, costituiscono per tutto il film un leit-motiv costante che lega i due giovani protagonisti indissolubilmente al loro passato, ma che costituisce, proprio in virtù di questo, il punto di partenza della loro ricerca verso un nuovo cammino. Ciò comporta coraggio, esitazioni, dubbi, dolori ed infatti il rapporto tra Kenji e Noi si costruisce lentamente proprio attraverso la reciproca difficoltà di intendersi, a cui fa da corrispettivo però una altrettanto tacita e forse inconsapevole volontà di ritrovare l'amore per la vita attraverso le qualità diverse dell'altro. Ne consegue perciò che il film va avanti per esitazioni, per accostamenti fisici esitanti, per tentativi spesso velleitari. I due personaggi vivono in una sorta di zona liminare che li rende periferici alla loro stessa storia: sono fragili e la loro fragilità spesso si trasforma in una dolce, reciproca incomunicabilità fisica e verbale.

 

Ratanaruang riesce a rendere queste atmosfere rarefatte e sospese in maniera eccellente. Grazie allo straordinario lavoro del direttore della fotografia Christopher Doyle, il forte impatto visivo del film deve molto al fatto che i personaggi sono sempre immersi in una luce tenue che offusca i loro visi ed i loro corpi, isolandoli spesso dagli ambienti e rendendo bene quel senso di solitudine ed estraniazione in cui versa la loro condizione esistenziale. Gli ambienti, invece, sono ricchi di particolari, oggetti comuni e banali su cui la macchina da presa si sofferma: una valigia, un piatto, un libro, una foto. Eppure è grazie agli eleganti piani sequenza realizzati dal regista che si rimettono insieme tutte le tracce ed i ricordi che consentono ai due di seguire insieme il percorso di redenzione fatalmente intrapreso. Esemplare perciò la recitazione dei due attori fatta di silenzi, pause, parole non dette o frammentate. La parola si interiorizza, viene messa tra parentesi e assume la stessa importanza dei silenzi, dei vuoti, lasciando lo spazio ai gesti, agli sguardi (accompagnati da una semplice ed intensa musica d'atmosfera). Eccellente anche l'alternanza costante tra interni ed esterni, con i primi spesso oscuri su cui spiccano, sempre discreti ed isolati, pochi colori caldi (rosso, ocra, verde), ed i secondi, immersi nel blu, colore della città costiera e dei sentimenti malinconici e contrastanti. Pregio del film è anche il tentativo riuscitissimo di spezzare il tono tetro con l'inserzione di momenti ironici, paradossali, ed improvvisi cambiamenti di scena (rientra in questo anche la sottile parodia del cinema degli Yakuza, quasi una frecciata a Kitano).

Un perfetto equilibrio tra poesia ed ironia, tra costruzione drammatica e scelte tecnico-visive: il cinema dell'estremo Oriente continua dunque a stupire e commuovere, e in virtù del suo spessore dovrebbe meritare più attenzione da parte delle distribuzioni europee, che invece spesso relegano questo cinema alle sezioni collaterali dei festival che non sono più sufficienti a contenere una cinematografia così fresca ed intelligente.


Last life in the universe
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