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Chi fa la spia, non è figlio di Maria

di Roberto Fedi
  Il cast di Alias
Data di pubblicazione su web 15/01/2003  
Il tema della doppia identità è vecchio come il mondo: anzi, come l'identità. Nella Gerusalemme liberata, tanto per dire, a un certo punto un personaggio minore dell'esercito cristiano, tale Vafrino, si traveste da saraceno e si introduce nel campo egiziano, per spiare e vedere cosa fanno gli infedeli, che razza di armi hanno, che cosa stanno architettando. Se avesse avuto una macchinetta fotografica, magari nascosta nel turbante, l'avrebbe usata di sicuro. Essendo vissuto qualche secolo troppo presto, si limita a osservare e ricordare; e già che c'è anche a scoprire una congiura per far fuori Goffredo, e a scovare e portar fuori Erminia, temporaneamente ricoveratasi fra le tende dell'accampamento pagano. Ma questa è un'altra storia.

Come si vede, però, le spie sono personaggi letterari (noi abbiamo conosciuto solo quelli) poco onorevoli, ma ahimè necessari: Vafrino, per insistere nell'esempio, è poco più che un servo, non ha nessuna nobiltà, e si vede solo lì. Ma salva la vita al suo capo. Insomma, nell'immaginario narrativo la spia ha un ruolo non solo ambiguo per sua natura (non è ciò che tutti credono che sia), ma anche inquietante. Anche maledetto, magari. È quello che accade a tutti quei personaggi che ci toccano corde profonde: come, ad esempio, quelle della nostra identità, da Pirandello in poi.

Il tema del 'doppio' è al centro della nuova serie Alias, che prende il via di domenica su Raidue. Sydney Bristow (Jennifer Garner) è una studentessa universitaria che ha, per l'appunto, una doppia vita: come scopriamo in un frammentato flashback è stata un giorno avvicinata da agenti della CIA, e arruolata prima con incarichi modesti, e poi sempre più importanti fino ad essere un'agente della segretissima sezione SD-6. E fin qui, tutto bene. Il problema arriva quando si innamora e si fidanza con un bravo giovine (avrebbe detto Manzoni), un medico dell'università. Ora, come tutti sanno da 007 in poi, i legami sentimentali con spie o agenti segreti di entrambi i sessi sono deplorevoli: James Bond non fa in tempo - una volta tanto - a innamorarsi e a sposarsi, in un celebre romanzo di Fleming, che gli uccidono la moglie; Nikita, nel film di Luc Besson, sparisce tristemente nel nulla proprio perché il suo gentile fidanzato perbene non deve essere coinvolto.

Qui Sydney, ragazza un po' tormentata con un padre duro e assente e orfana di madre, non resiste e confessa al promesso sposo la sua identità segreta. Mal gliene incoglie - al promesso sposo. Che viene ucciso senza pietà, perché nelle società segrete non si sgarra: l'uomo che sa troppo deve sparire. Inizia una sequenza senza respiro, perché si scopre che l'SD-6 non è una sezione speciale della CIA, ma un gruppo nato all'interno dell'Agenzia per scopi poco puliti, anzi criminali. E che il padre assente in realtà è anche troppo presente: è un agente dell'SD-6 anche lui, anzi, è uno che fa il doppio gioco, un infiltrato messo lì dalla CIA per scoprire la mappa dei criminali. E anche Sydney, dopo essere sopravvissuta rocambolescamente ad una tortura di un dentista sadico (ricordate Il maratoneta di John Schlesinger, 1976, con il criminale nazista Laurence Olivier che tortura Dustin Hoffman?) entra nella CIA 'buona' per scoprire i legami segreti dell'SD-6, facendo così l'infiltrata e mettendo su, se possibile, una tripla identità… Un gioco di specchi.

Nel quale lo spettatore dapprima si smarrisce, e poi riannoda i fili aiutato da un regista come si deve e da attori eccellenti (bravissima l'interprete femminile, dura e bella, che riprende deliberatamente Anne Parillaud di Nikita, anche nelle scene movimentate). Il tutto condito con le solite, ma non banali, ricette hollywoodiane: il rapporto padre e figlia, il mistero, sotto sotto la psicanalisi, e senza che lo spettatore sia considerato un cretinoide incapace di intendere e di vedere. Quindi non ci sono spiegazioni di personaggi di comodo che servono solo riannodare le fila della narrazione, non spaventano i flashbacks complessi, il montaggio è convulso come si deve, le ellissi narrative ci sono e fanno parte del gioco. E la struttura narrativa è eccezionale: l'inizio, ad esempio, è mozzafiato.

Un piacere a vedersi, proprio perché gli autori ti danno credito, non ti aiutano a capire con mezzucci da quattro soldi, e non ti danno tregua. E la storia, senza perdersi, ti porta in abissi senza fondo, in ingorghi gnoseologici, in una realtà che non è mai quella che sembra ma doppia, tripla, scomposta, paurosa. E che alla fine è senza speranza, come nelle scene pulsanti delle città buie e pericolose, che fanno da corona maledetta ai momenti del ricordo, dell'introspezione, della pena, della solitudine di chi, appunto, non ha redenzione, non è più figlio di Maria.



Alias

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