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Olmi-Tarantino 1-1

di Giovanni Maria Rossi
  Uma Thurman
Data di pubblicazione su web 16/02/2003  
Può sembrare un confronto paradossale, provocatorio, irriverente. Poi mi ha confortato leggere l'illustre collega Tullio Kezich: "Cantando dietro i paraventi è l'esatto contrario dell'imminente Kill Bill: se Quentin Tarantino dichiara guerra al mondo intero in nome della vendetta, Ermanno Olmi invoca la pace nel segno del reciproco perdono. Chissà se in futuro qualcuno, evocando i massacri senza fine del 2003, vedrà nella contrapposizione di due film particolarmente significativi la proiezione dell'opposto atteggiamento che divide l'Europa dall'America” («Corriere della Sera», 18 ottobre 2003). Più che la contrapposizione, scontata, cerchiamo di vederne similarità e differenze. 

Entrambi gli autori, il settantaduenne bergamasco e il quarantenne del Tennessee, per scongiurare la pratica e l'estetica della violenza che ci circonda e invade l'immaginario occidentale, sentono l'esigenza di confrontarsi con l'Estremo Oriente, terra di potenziali saggezze e rasserenamenti: l'uno con una Cina metastorica filtrata da un racconto cinese dell'Ottocento, dalle reminiscenze salgariane e da un omaggio garbato e "povero" all'Ultimo imperatore di Bertolucci, con la consueta, affettuosa attenzione alla fisicità degli oggetti, al cigolare dei legni e delle vele, al fumo innocuo e denso dei cannoni, alla musicalità dei paesaggi e delle atmosfere; l'altro con un Giappone altrettanto inventato, frutto di una miscela ingorda di manga e kung fu, yakuza e Kitano, con eccessi pulp di pura fiction.  
Entrambi ricercano una forma originale di rappresentazione contaminando la scena filmica con altri generi di entertainment: Olmi dilata esplicitamente lo schermo fino a farlo coincidere con un palcoscenico di un teatro-bordello-fumeria, provvisto di quinte, fondali, nudi di donna e attrezzi di scena, evocando apologhi brechtiani e suggestioni shakespeariane, per poi riaffiorare en plein air nel lago-mare solcato dalle placide giunche dei suoi pirati; Tarantino, più subdolamente, attraversa di gran carriera spazi compressi e distorti, accelera i percorsi di raccordo e concentra lo sguardo sui corpi amati e armati in movimento, fino a coreografare la scena madre di Kill Bill - Volume I, interminabile duel x 88, in un sushi bar nipponico che ha tutta l’aria – o si trasforma – di una palestra per l'esibizione di arti marziali. L'uno e l'altro inseguono una forma libera di narrazione antirealistica, con le cadenze, le iterazioni, i rimandi, la struttura episodica dell'epos e con un narratore fuoricampo (Tarantino) o in campo (Olmi, che ha la geniale intuizione di mettere in scena come pacato cantore dell'azione l'omerico Bud Spencer, ex attore di azioni grottesche e violente) che ricuce i tempi sgranati del racconto. 
 
Ribaltando i generi sfiorati, compreso il western italiano da Leone in giù (Tarantino usa fin la musica di Morricone nella sua poderosa colonna sonora), e forse compiacendo un certo gusto del tempo per il neoprotagonismo femminile, i due ignari consanguinei affidano la lama della vendetta a mani di donna, la dolente e inflessibile vedova Ching per Olmi, la scattante sposa Black Mamba per Tarantino. Che poi l'una si arresti di fronte ad un poetico volo di aquiloni di pace sprigionatosi dalla flotta imperiale e l'altra continui la sua macabra corsa verso un Kill Bill - Volume II già girato e annunciato, non fa che accentuare le apparenti dissonanze ideologiche fra i due e le consonanze formali: una sanguinosa catarsi in scena per Tarantino il postmoderno, sotto gli occhi muti di una piccola di colore, una riflessiva catarsi fuoriscena per il classico Olmi davanti all'unico ragazzo in teatro, spettatore per sbaglio.

Semplificano entrambi il messaggio della favola, vendetta o perdono, ma poi si distanziano soprattutto nella cornice etica che sorregge i loro testi: per Olmi, pur in uno scenario segnato da vizi, crudeltà, fellonie, tradimenti e conflitti d'interesse, resta un varco per l'utopia di un mondo senza guerra e violenze, grazie alla donna, al canto, all'umiltà; per Tarantino il gioco è tutto interno al Male e la donna-giustiziera non fa che precipitare il destino, riscrivendolo con i movimenti ideografici della katana. Entrambi si fanno rapire dal piacere dell'affabulazione e catturano, con disarmata ironia, la bonaria ingenuità di chi guarda.
 
 










 
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