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La recita infinita di Volpone e del suo servo Mosca

di Carmelo Alberti
  Volpone
Data di pubblicazione su web 08/01/2003  
A dispetto del tempo, Volpone or the Fox, il capolavoro di Ben Jonson messo in scena nel 1606 - sotto l'egida di Giacomo I, erede di Elisabetta I d'Inghilterra - al Globe di Londra dalla compagnia dei King's Men, mantiene inalterati i toni satirici, laddove addita le incongruenze dell'avidità umana mediante un procedimento sovversivo che investe il mondo dei profittatori paludati e dei malandrini rispettabili.

La messinscena curata da Glauco Mauri procede da un intervento di sottrazione testuale, a beneficio di una essenzialità nella scrittura drammatica, utile per prosciugare i tratti distintivi dei singoli protagonisti perché possano transitare in modo efficace, attraverso i secoli, fino ad oggi. Già nel testo di Mauri serpeggia la forza di una risata in grado di raggelare il vizio entro il cerchio di una logica perversa, implacabile, che non risparmia nessuno, tanto meno colui che supera ogni altro con la sua geniale malvagità.

Volpone e il suo servo Mosca, simili a un doppio onnipotente, sono gli artefici di una beffa metafisica, in grado di condizionare la vita e le azioni di tre vittime esemplari, trascinandoli a piacimento sul palcoscenico di una recita infinita. Fingendosi malato, in stato agonizzante, il furbo macchinatore genera le attese di tanti procacciatori di eredità, mentre li sospinge dentro la trappola di un'illusione crudele; il parassita Mosca, intanto, accresce a dismisura in ciascuno di loro la convinzione di poter diventare l'unico beneficiario di un'esagerata fortuna.

L'inno all'oro, con cui si apre la messinscena di Mauri, pone l'accento non solo sull'ebbrezza che si prova nell'aumentare giorno dopo giorno un tesoro già immenso, ma anche sul piacere di saperlo fare senza sporcarsi le mani divorando "uomini ingenui". È una distinzione importante quella che avanza Mosca, prendendo le distanze da quanti depredano gli esseri infelici e disperati, da chi non si ferma neppure dinanzi ai vincoli di sangue e di parentela, tanto meno davanti alla sofferenza e alla miseria. Ciò a cui assistono gli spettatori è, invece, una sfida possente tra una coppia di imbattibili astuti e un terzetto di ingordi "clienti" - l'avvoltoio, il corvo, la cornacchia - che lo adulano, lo beneficano con doni preziosi e con visite frequenti, lo assecondano anche a costo di diseredare il proprio figlio e di cedere i favori della propria moglie.

La sensibilità artistica di Mauri si scorge, anzitutto, nella cura meticolosa che rivolge alla valorizzazione dei dialoghi, affinché risulti evidente il significato ideale di una commedia in apparenza gradevole: si ride tanto nell'assistere al perfetto snodarsi delle situazioni, governate da una furbizia metateatrale, che indaga sul male di vivere attraverso la forma di una rappresentazione sublime, nella quale si utilizzano le trappole del travestimento e della finzione per ingannare gli occhi e illudere le menti. La tipologia di ogni personaggio sembra racchiusa nello schema della "maschera" che, però, a poco a poco lascia intravedere un risvolto patetico, un'aura malinconica, dei toni che appaiono tanto più graffianti quanto più sono venati di ridicolo.

La personalità di Volpone è sviluppata dallo stesso Mauri intorno al perno dell'esaltazione e dell'energia: assomiglia a un utopista che ambisce a possedere i beni del mondo, che pregusta la felicità di vincere le sfide che lancia, una dopo l'altra, contro la dabbenaggine dei malfattori. Il valore della recitazione dell'attore-regista si coglie tanto nell'abilità con cui apre il ventaglio dei significati impressi nel corpo delle parole che pronuncia, quanto nella varietà di gesti e di segni che fanno da contrappunto a ogni passaggio farsesco.

Una venatura di crudo cinismo segna l'interpretazione di Roberto Sturno nelle vesti di Mosca: con abilità l'attore suggerisce un esito impensabile al carattere del fantasioso inventore di soluzioni, non servo ma silenzioso artefice degli inganni, fino a che per una svolta imprevista il suo nome non è scritto da Volpone per burla sul proprio testamento. In quell'istante dall'animo di Mosca sgorga una trasognata autorevolezza, che trapela mentre ad alta voce traccia sul registro l'inventario dei beni diventati ormai di sua proprietà. La figura del parassita acquista nella lettura di Mauri un ampio respiro critico, come lo specchio di un capovolgimento della fortuna che permette alla vicenda di ritrovare l'amara circolarità degli eventi umani.

Massimo Loreto avvolge la parte dell'avvocato Voltore in un controllato quanto efficace profilo caricaturale; il bravo Gianni De Lellis deforma il personaggio del vecchio Corbaccio fino al limite del grottesco; il Corvino di Alarico Salaroli impone con efficacia la lotta interiore tra il morso della gelosia per la sua sposa e l'irrefrenabile amore per il denaro. Ottengono l'effetto desiderato l'ingenuo Bonario, figlio di Corbaccio, reso da Sergio Raimondi, e la bella Celia affidata a Marina Kazankova; nella satira delle disinvolture della giustizia risulta apprezzabile la prova di Felice Leveratto nei panni del giudice.

Il progetto di Mauri è ben curato anche nella definizione della scenografia, firmata da Alessandro Camera, che utilizza un sistema circolare di eleganti tendaggi per isolare di volta in volta i passaggi del racconto scenico; altrettanto sontuosi risultano gli arredi e i costumi, che accentuano il tema dominante dell'abbagliante luccichio della ricchezza. Ben appropriato è, infine, il commento musicale che asseconda il ritmo dello spettacolo, donando un'aura melodrammatica ad alcuni passaggi, come accade nel magnifico duetto, eseguito da Mauri e Sturno, entrambi in costume clownesco, mentre in Piazzetta San Marco imitano i modi del celebre ciarlatano Scoto di Mantova, venditore di un magico elisir; oppure quando Volpone canta, sul filo della memoria, "Vieni a me, mia dolce Clelia", che trasfigura il volto del macchinatore fino ai limiti dell'innocenza sentimentale.

Volpone
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