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La ricetta del successo.

di Albarosa Camaldo
  Vincenzo Salemme
Data di pubblicazione su web 06/05/2004  
Come è nata la tua passione per il teatro: è una vocazione personale o nella tua famiglia c'è qualche precedente che ti ha stimolato a seguire la stessa via?
Non ho nessun precedente in famiglia, mio padre era avvocato e mia madre era insegnante nelle scuole elementari. Io sono nato con la voglia di fare teatro e morirò con questa voglia.

Ti sei formato artisticamente tramite una scuola o studi personali? Quali sono stati i tuoi maestri?
Non ho fatto nessuna scuola, ho cominciato a fare l'attore prestissimo, nel 1975, a 18 anni, esibendomi subito in teatro: ho lavorato prima nella compagnia di Sergio Solli e, nel 1976, con Tato Russo. Successivamente fu proprio Sergio Solli a portarmi nella compagnia di Eduardo De Filippo con cui ho recitato dal '77 all' '84, anno in cui è morto. Da Eduardo ho imparato che il teatro deve coinvolgere tutti: il suo teatro era fatto per il popolo, era comprensibile da chiunque, poteva piacere al duca come alla cameriera. Dopo la sua morte ho lavorato nella compagnia del figlio Luca. A Eduardo devo tanto, poiché ho imparato molto osservandolo, e a Luca lo stesso, perché mi ha fatto scuola e mi ha dato molte possibilità come attore, dandomi l'opportunità di interpretare vari personaggi. Tu puoi avere talento, ma questo talento deve essere letto dal pubblico e per farlo comprendere devi imparare a esprimerlo e avere qualcuno che ti insegni a farlo come ha fatto Luca con me durante le tournées.


Vincenzo Salemme


Ci sono attori che, pur non avendo conosciuto personalmente, consideri tuoi 'maestri ideali', o autori a cui ti ispiri anche adesso quando scrivi?
Gli autori mi ispirano tutti: da un lato mi fanno venire voglia di scrivere, dall'altro me la fanno passare perché mi chiedo: come fanno a scrivere così bene?. Io scrivo soprattutto per me, creo il mio mondo; ogni mio spettacolo è una storia che ho bisogno di raccontare per esprimermi. Il luogo in cui riesco a dare il meglio di me stesso è il teatro. Maestri ideali sono per me Totò, Peppino… rappresentano un mondo poetico nel quale mi riconosco.

Quanto l'essere napoletano ti ha aiutato per raggiungere maggiore espressività nella recitazione?
Non esiste a teatro una tradizione così forte come quella napoletana. L'avanspettacolo e il varietà sono napoletani. Gli attori partenopei hanno una marcia in più, anche se il loro talento può essere un limite: è difficile dirigerli, come regista, perché hanno già un loro mondo dentro e un loro modo di esprimerlo. Gli attori di scuola non mi piacciono, quelli che sanno come si dice una battuta per me non significano niente, non mi interessa il 'mestiere'. L'attore è bravo quando ti presenta anche i difetti, gli orrori, i dolori. Se la napoletanità diventa una macchietta il pubblico coglie la caricatura, ma non la sincerità dell'interpretazione.

Come definisci il tuo stile di recitazione?
Non so dare una definizione del mio modo di recitare; direi 'sincero', anche se mi sembra un ossimoro. Essere sincero in scena è una scelta: scegli di non nasconderti dietro il mestiere, ma di mostrare al pubblico il tuo cuore dietro il personaggio: è questo il mio modo di lavorare.


Carlo Bucirosso, Nando Paone, Vincenzo Salemme, Maurizio Casagrande


Ci sono tuoi personaggi ai quali sei più legato perché ti hanno dato maggiore soddisfazione e piacere nell'interpretarli?
No, non uno in particolare perché sono passato attraverso un crescendo di ricerca di espressività; ogni attore migliora man mano che caratterizza i suoi personaggi e, inevitabilmente, gli ultimi sembrano migliori dei precedenti.

Come caratterizzi i tuoi personaggi? Spesso sono caratteri molto difficili da rappresentare in scena, per cui ci vuole una grande energia per rendere la loro, talvolta indiavolata, vivacità.
Sì, ci vuole tanta energia fisica, mi piace esplodere sul palcoscenico. Nella vita quotidiana sono molto inquieto, ma tendo più alla depressione che all'esplosione, invece in scena fortunatamente mi accade sempre il contrario. Li caratterizzo con la mimica, che è una grande risorsa, con la voce, diversa a seconda del tipo di personaggio che interpreto, con il trucco: per esempio in La gente vuole ridere cambio molti costumi, diventando ora una contessa velata di nero, ora un custode che parla un linguaggio incomprensibile, ora un falso mago orientale.

Oltre che attore, nella maggior parte dei casi sei anche autore: come avviene la creazione di un testo? In E fuori nevica! (1995) c’erano solo quattro protagonisti, nel recente La gente vuole ridere (2004) c'è una fantasmagoria di personaggi; stai ampliando la descrizione dell'umanità in una sfaccettatura di tipi diversi?
Se i personaggi sono tanti o pochi dipende anche dalla produzione; io sono anche produttore e magari all'inizio della mia attività avevo meno soldi e riducevo i ruoli; poi dipende anche dalla storia, da quante persone ho conosciuto e con chi desidero lavorare. Scrivo perché mi viene in mente una persona, un tipo che voglio raccontare, e poi cerco di fare un progetto 'insieme' a quella persona.


Vincenzo Salemme e Sabrina Ferilli


Quindi i tuoi personaggi nascono su misura per i tuoi attori che spesso sono gli stessi che lavorano con te da anni come Maurizio Casagrande, Nando Paone, Carlo Buccirosso.
Sì, perché è più semplice crearli traendo ispirazione dalle persone che conosco bene, dalla loro comicità ora misurata, ora farsesca.

Siete un po' come le antiche compagnie all'italiana costruite sui ruoli?
Mi ispiro alle compagnie di repertorio che, avendo sempre gli stessi attori, possono da un momento all'altro cambiare spettacolo, perché insieme hanno fatto anche altri spettacoli e quindi conoscono tutte le parti; il copione messo in scena due anni prima basta provarlo per rimettere in piedi una commedia.

Spesso anche nella stessa sera mettevano in scena due commedie…
Sì, all'epoca si faceva e non mi dispiacerebbe farlo anche oggi. Certo adesso non è possibile: tutto costa di più; se metti in piedi un allestimento scenico di un certo tipo è già costoso e non puoi sostituirlo in poche ore.

La gente vuole ridere è un riadattamento di un omonimo testo del 1993; anche in altre occasioni hai trasformato tuoi testi, per esempio la commedia L'amico del cuore (1997) è diventato un film (1998). Come avviene la trasformazione?
Scelgo una commedia pensando che ha un bel meccanismo, che fa ridere e cerco di renderla fruibile dal pubblico. Scrivere e adattare una commedia è come quando inviti a cena qualcuno: io sono ospitale, mi piace avere persone a casa e mi piace cucinare quello che immagino che possa piacere, per esempio faccio la pasta al forno e non ci metto il sugo troppo piccante perché non a tutti piace, ma un sugo più leggero che soddisfi tutti i commensali. Così nel comporre un testo tengo conto del gusto del pubblico e non abuso di termini troppo dialettali che risulterebbero poco comprensibili fuori da Napoli. Nel procedimento drammaturgico unisco le mie idee alle esperienze che ho fatto nella vita privata e lavorativa, usufruendo anche della fantasia degli attori e della maniera in cui rispondono ai vari stimoli che propongo, e poi costruisco la commedia. Riscrivo il testo in base alle prove fatte con gli attori e poi lo 'servo' al pubblico, ma se capisco che quei pezzi non funzionano li cambio fino all'ultima replica.

Come mai non hai pubblicato tutti i tuoi testi rappresentati, ma solo E fuori nevica, Premiata Pasticceria Bellavista e L'amico del cuore? Ritieni che debbano vivere più sul palcoscenico che sulla carta, perché il testo viene arricchito e variato continuamente durante lo spettacolo da quella sorta di improvvisazione che ricorda i comici del teatro dell'arte e che vi porta talvolta a non riuscire a trattenere le risate nate dalla vostra spontaneità?
Il testo scritto va stampato dopo un certo numero di repliche, diventa un testo vero quando è stato recitato davanti al pubblico dopo che lo hai provato, ti sei accorto che ha un certo interesse, anche come lettura oltre che come spettacolo, e lo hai modificato inserendo alcune battute scaturite nel corso delle repliche.


Vincenzo Salemme


Dal 1998 con la versione cinematografica di L'amico del cuore hai iniziato a dedicarti anche al cinema, sia come attore che come regista, rinnovando il successo con Amore a prima vista (1999), A ruota libera (2000), Volesse il cielo! (2001), Ho visto le stelle (2003). Come regista, che differenza riscontri nel dirigere un testo teatrale o un film?
C'è molta differenza: in teatro prevalentemente dirigi gli attori, al cinema invece li dirigi poco, poiché ti resta meno tempo per loro, dato che devi occuparti anche delle maestranze, che sono squadre molto più ampie, e spesso devi delegare ad altri - all'aiutoregista, al direttore della fotografia, al capomacchinista - alcune mansioni. Per esempio, il macchinista in teatro dipende da me, invece nel cinema il macchinista dipende dal direttore della fotografia più che da me. Io provo a fare la stessa cosa, ma è difficile creare la medesima atmosfera lavorativa del teatro.

Tra questi generi quale ti è più congeniale?
Mi è più congeniale il teatro. Nel cinema non sono ancora riuscito a esprimermi con naturalezza. Anche a teatro mi avevano dato delle regole, poi io ho fatto le mie regole, al cinema invece non ci sono ancora riuscito perché dipendi da troppe persone e le regole degli altri ti condizionano.

Tra i tuoi attori cos'è per te Maurizio Casagrande, che da anni lavora in tutti i tuoi spettacoli e i tuoi film, una spalla, un alter ego, l'elemento necessario che, con le sue battute, mette in risalto le tue e sottolinea, con la sua misurata comicità, la tua?
Non è una semplice spalla, è un attore molto importante e mi serve per commentare, come fosse il pubblico, quello che faccio.

È un po' la parte razionale, l'antagonista dei tuoi pazzi personaggi?
Esatto, ed ha molto successo.

Parlaci della sua ultima commedia, La gente vuole ridere, che dopo essere stata rappresentata all'Eliseo di Roma stai portando in scena al teatro Manzoni di Milano.
La commedia è ambientata nel teatro della villa della contessa Magda, una nobildonna nerofumo. Lei chiede ad alcuni attori, in cambio dell'ospitalità, che rappresentino per lei la loro vita quotidiana. La contessa li vuole guardare nella loro intimità e prepararli affinché il pubblico in futuro possa entrare in teatro 24 ore su 24 e osservarli in ogni momento. L'ho scritta nel '93 prima dell'era del Grande fratello; l'ho riscritta adesso ripensando i vari personaggi in base agli attori che ho a disposizione. È uno spettacolo truccato da commedia, una specie di varietà in cui i personaggi si susseguono l'un l'altro come nell'avanspettacolo. Il titolo deriva da una frase che mi hanno sempre ripetuto da quando mi sono messo a fare l'attore e gli impresari mi dicevano: ''Ma chi te lo fa fare di fare teatro, la gente vuole ridere''. Io pensavo: ''Ma io faccio teatro e magari faccio anche ridere'', e loro mi rispondevano: ''Il teatro non fa ridere, la gente vuole ridere e si stufa di venire a teatro''. Per me era in incubo. Allora ho pensato a un genere di spettacolo che facesse divertire.


 
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Leggi anche la recensione allo spettacolo Cose da pazzi! ovvero "Lo strano caso di Felice C" nella sezione 'Teatro', archivio 2003




 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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