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Lamento per Pantani

di Roberto Fedi
  "Jour de fete", di Jacques Tati, 1949
Data di pubblicazione su web 17/02/2004  
Siccome è morto alle cinque della sera, anche se non nell'arena ma in un anonimo residence romagnolo, ci saremmo aspettati che qualcuno dei tantissimi che su di lui hanno sparso pietas e retorica si ricordasse del povero torero Ignacio. Ma si sa, i giornalisti 'sportivi' non leggono Garcia Lorca (forse, eccezioni a parte, non leggono niente), e quindi ci siamo dovuti accontentare di epicedi modesti, e di ricordi talmente quotidiani da sfiorare il banale.

Peccato. Perché l'incapacità di cogliere, al di sotto e al di là del gesto agonistico, anche qualcosa di meno superficiale, anche (magari sbagliando per eccesso di polemica o d'amore) la pasta dell'uomo e il suo animo non puramente 'sportivo', è da sempre uno dei limiti di quelli che ogni giorno, ogni sera, ogni domenica, ci rintronano con le moviole, gli arbitri, i rigori, e il 4-4-2. Sono, più che altro, dei chiacchieroni. Come per esempio alla Domenica sportiva del 15 febbraio, the day after: una dozzina di giornalisti e 'opinionisti' lì schierati non a ricordare, ma a celebrare il nulla della loro impotenza di farci capire.

Anche qui si misura la capacità della televisione (di Stato, in questo caso) di interpretare il sentimento comune, o come si dice oggi una emozione condivisa. Marco Pantani non era simpatico, non era bello, non era fotogenico, non era facondo, non si concedeva alle interviste, non appariva quasi mai in tv, non aveva fidanzate veline. Eppure proprio per questo era, possiamo dirlo?, amato da migliaia di persone: quelle che, anche nell'ultimo, penoso Giro d'Italia, avrebbero dato sei mesi di vita per vederlo ancora solo, in salita, al comando della corsa. Perché? Nessuno ce lo ha spiegato, né ci ha provato, preferendo farci vedere le dichiarazioni di un immondo Maradona al carnevale. Anzi: nessuno ha neppure ricordato questa paradossale verità, sciorinando invece illazioni e scemenze, magari commosse, di tutti i tipi sulla sua fine, la solitudine, il doping, la depressione. Tutti, sollecitati dai conduttori della Domenica e dai giornalisti (Galeazzi in primis), ci hanno detto che cosa hanno provato. E chi se ne frega.

Quindi, oltre alle immagini (sempre le stesse: ma possibile che negli archivi Rai non ci fosse altro?), e a un pezzo di struggente intervista di qualche anno fa a Gianni Minà (che ha mandato in onda Rai Uno di notte), ci restano poche cose: uno splendido articolo di Gianni Mura su Repubblica dello stesso giorno, e una o due dichiarazioni, semplici, di qualche amico. Fra queste, bellissima, quella di Francesco Moser: che è uomo di montagna, che parla poco e lentamente, e che misura le parole. Peccato, ha detto commosso. Avrebbe avuto ancora molte cose da fare, e tante cose da raccontare.

Perché questo è il ciclismo: un racconto che nessuno sa più raccontare, molto simile a un romanzo; e un'allegoria anche, sotto forma di storia. Che qualche volta, come accade ad altre storie, può anche finire alle cinque della sera, in un pomeriggio di festa.

 




La domenica sportiva

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Robert Doisneau
Foto ispirata a Jour de fete (Jacques Tati, 1949)


 
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